Prima di rispondere alla domanda “Che rapporto c’è fra la gestione del cambiamento organizzativo e le resistenze delle persone al cambiamento stesso?”, devo fare una doverosa premessa.
Sappiamo che per le organizzazioni l’apprendimento non è una questione accessoria: molti risultati a cui si punta dipendono di fatto dal fatto che le persone facciano qualcosa di diverso, di migliore, che siano più efficaci ed efficienti nei loro comportamenti. Sappiamo anche che di fatto gli investimenti in formazione spesso costituisco uno dei primi ambiti che subiscono dei tagli e questa cosa è spiegabile solamente dal fatto che, in fondo, non vi è così tanta fiducia nel fatto che la formazione produca quel cambiamento desiderato e, di conseguenza, i risultati.
E se guardiamo il fenomeno dell’apprendimento più da vicino, effettivamente ci rendiamo che quella sfiducia ha davvero ragione di esistere. Continuiamo a ripetere che l’intento della formazione non dovrebbe essere il fatto che le persone partecipino alla formazione ma che vi sia poi un trasferimento. Se questo trasferimento non accade sono dolori. Il fatto è che la formazione viene, in campo accademico e aziendale, pensata in termini molto generici, con poco desiderio di osservare i dettagli e quelle distinzioni che fanno la differenza.
Effettivamente quando si parla di gestione del cambiamento ci sono trasformazioni che possono essere guidate semplicemente partendo dalla consapevolezza. Ricordo questa scena: uno store manager che cercava di aiutare i commessi novelli a gestire un cliente che pretende di cambiare un prodotto senza portare lo scontrino. Il fatto è che poi qualcuno di questi clienti alza pure la voce… e allora lui semplicemente simulava la situazione di fronte ai propri collaboratori: “Guardi, mi aiuti ad aiutarla, io vorrei proprio cambiarle questo prodotto ma l’azienda non ce lo consente. Una soluzione può essere che lei compri qualcosa di pari valore CHE LE SERVA DAVVERO, che comprerebbe comunque; poi con quello scontrino io le cambio il prodotto che vuole cambiare”.
Ecco come trasformare una situazione in perdita in una occasione di vendita ulteriore. Che poi i clienti abbocchino è tutto da vedere… ma certamente da quel momento i commessi sanno cosa possono dire per gestire quel tipo di situazione. Punto. Si tratta semplicemente di metterlo in pratica. E’ un comportamento semplice.
Come sorridere a una persona che entra dalla porta. Per questo tipo di questioni, effettivamente una comunicazione informativa, con un minimo di coinvolgimento attivo delle persone, il saper attirare la loro attenzione, è sufficiente. Ma cosa dire di un comportamento più complesso?
Molti comportamenti che fanno la differenza per i risultati di business sono più simili ad imparare un nuovo arpeggio con la chitarra o perfezionare un colpo di tennis. Si tratta di comportamenti costituiti da sequenze complesse che magari prevedono interazioni con altre persone, interazioni imprevedibili e alle quali si può rispondere in maniera non univoca.
Quando mai si è vista una persona migliorare nella tecnica del tennis dopo una bella spiegazione senza un allenamento? Ebbene, per tutti questi comportamenti che possono andare dalla gestione di una negoziazione sindacale ad un pubblic speaking, l’approccio normalmente utilizzato, quello cognitivo, attraverso aule o sessioni di coaching o altro, non produrrà risultati significativi.
Perché a questo problema non si trova normalmente una risposta in ambito organizzativo? Beh perché chi decide per la formazione rimane essenzialmente impigliato in un modo tradizionale di fare le cose, senza che le varie mode del momento (didattica attiva, gamification, coaching coaching coaching, inspirational speach, ecc.) possano scalfire questo grosso problema di metodo.
E una volta impostato l’impianto della formazione, chi ha voglia di metterlo in discussione dicendo che non ha portato risultato? Senza che vi sia alcuna cattiveria, davvero non conviene a nessuno misurare quello che avviene o che non avviene. Tutt’al più che è anche un bel po’ più complicato misurare queste questioni ‘soft’ rispetto al tennista o al chitarrista che, se fa schifo, lo si vede e lo si sente. Negli ultimi anni si è sentito parlare anche di allenamento. Ma lo si fa sempre con la stessa superficialità e attrazione per il nuovo e senza guardare il fatto che quello lì, non è affatto l’allenamento che serve. Quando si sente dire: “Mah cerchiamo di fare l’allenamento in un giorno, due giorni sono troppi”… ci sono chiari sintomi che non si è proprio compreso l’entità della voragine. Però diciamo che fin qui, se ci fosse (e per la verità noi è dal 2010 che abbiamo sviluppato e perfezionato un metodo di allenamento) un approccio adatto ad allenare, la formazione avrebbe un senso.
Quando però il problema è di natura motivazionale, il change management assume connotati molto diversi. Diciamo che si chiede ad una persona di essere più efficace ed efficiente nella propria gestione del tempo. Diciamo che il problema è risolto in quanto sa come classificare le proprie attività per priorità e, essendo un primate evoluto, sa anche inserirle in un calendario. Non c’è un gran bisogno di allenamento in questo caso: basta farlo. Ma è questo il problema.
Gianmarco ha una resistenza interna dovuta al fatto che, in fondo, essere immerso nel flusso delle cose, richiede molto meno energia mentale. Sono gli altri o gli eventi oppure le scadenze o il magazzino che sta andando a fuoco, a gettarlo nell’azione. Perché dovrebbe, nella sua già stressatissima esistenza tra quelle quattro mura grigie con poca luce artificiale, aggiungere fatica? Ecco che, in questo caso si capisce bene che la formazione può molto poco. Eppure quante volte si richiede ai formatori di inserire, mi raccomando, quella raccomandazione di fare quello o di non fare quello? Come se il fatto che lo ripeta un formatore, ossia una persona esterna che si dissolverà come fumo in una giornata ventosa, possa servire a qualcosa. Se questo serve a dare al manager di linea la scusante: “Ah, gliel’ha detto anche il formatore! Allora proprio Gianmarco è resistente al cambiamento”, va bene. Non benissimo, ma comunque ha una sua contorta logica umana. Ma se si vuole puntare al risultato diventa chiaro che qui bisogna ricorrere ad altri sistemi.
In realtà a volte si dà troppa colpa al fattore motivazionale. Il giocatore di tennis può avere un bassissimo livello di energia ma può essere che quel problema sia la conseguenza del fatto che fa schifo a giocare e perde tutte le partite. Questo è il motivo per cui abbiamo elencato i fattori in questo ordine: prima bisogna lavorare con la persona supportandola ad essere efficace in quello che fa. A quel punto si può valutare più facilmente se ci sia un problema di motivazione. Ma c’è un altro caso in cui la mancanza di motivazione non spiega il mancato cambiamento: è quando la persona non riesce. Non riesce proprio. E’ bloccata internamente.
Chi ha mai provato il panico da palcoscenico capisce immediatamente quello che intendo. Puoi aver studiato perfettamente il tuo discorso ed essere anche in grado di farlo molto bene nella tua cameretta. Ma se il tuo sistema nervoso va in tilt quando sei sul palco c’è poco da fare. Anche in questo caso, capiamo bene, che la formazione non serve a un bel niente ma bisogna intervenire in maniera molto più localizzata.
In questo breve excursus mi sono concentrato prevalentemente sul piano individuale. Ma è ovvio che questi fattori individuali si intrecciano e influenzano con la complessità organizzativa di cui la persona fa parte.
Il relativamente recente interesse per gli aspetti dell’apprendimento informale e al social learning, ossia il modo con cui la persona apprende ad esempio, cercando di risolvere problemi contingenti e attivando risorse, recuperando informazioni, chiedendo supporto ai colleghi. Ma anche il modo in cui l’evoluzione ed il cambiamento del singolo possono essere frenati da aspetti sistemici che, paradossalmente, non sono in grado di accogliere quel cambiamento nè di supportarlo nè di rinforzarlo. Il fatto è che se si allarga la cornice di attenzione a questa dimensione sistemica diventa ancora più evidente l’impossibilità di definire un intervento di Change Management efficace, senza prima aver compreso lo stato delle cose.
Concludiamo questo breve excursus proprio con questa nota finale: il cambiamento, e l’eventuale apprendimento necessario, è un processo.
Difficilmente lo si può scolpire monoliticamente tutto in una volta. Facciamo riferimento all’idea dell’action-research per dire che in genere è proprio attraverso una ricerca che si cominciano a cogliere quegli aspetti che sono sottesi alla cosiddetta ‘resistenza’ al cambiamento e che si identificano le leve e gli strumenti da utilizzare per generare l’evoluzione desiderata.
Al contempo, è nel momento in cui si muovono quelle leve, e si procede attraverso l’implementazione di un piano di cambiamento, che nuove preziose informazioni emergono e possono essere utilizzate per rendere il processo efficace.
Come spesso accade l’atteggiamento mentale fa la differenza: se si pensa alla formazione come un insieme di attività didattiche, date segnate sul calendario, quindi come una ricetta ormai definita e pronta da mettere in forno, non si coglierà nulla. Se invece si affronta la formazione con lo sguardo agile della scoperta continua, essa diventerà un’esperienza avvincente, sempre viva, generatrice di risultati.
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Andrea Magnani
CEO & Founder di LAM Consulting srl SB