Questo è un estratto, appositamente adattato per il blog, del libro
“LAM: Learning Action-Matrix. Colmare il GAP tra il SAPERE e FARE nelle organizzazioni.”
di Andrea Magnani.
Separare il training dall’applicazione sul campo
Tutti sanno per esperienza che pensare ad un’attività automatica e spontanea mentre la si esegue, crea un’interferenza con l’attività stessa. Paul Watzlawick ha ampiamente analizzato questo effetto riferendosi alla teoria del paradosso: un’attività che funziona quando è spontanea, non può più funzionare altrettanto bene quando si cerca di riprodurla deliberatamente. La ricercatrice dell’Università di Chicago, Sian Beilock ha studiato il fenomeno del choking (letteralmente ‘soffocamento’ in quanto un’eccessiva attività di pensiero crea un’escalation di agitazione tale da portare la persona che sta effettuando una performance, sia essa sportiva, teatrale, ecc…, in carenza di ossigeno), confermando che quando una persona esperta è costretta a pensare a ciò che sta facendo, peggiora la sua performance. Nell’apprendimento delle competenze, generalmente avviene che le persone ascoltino una quantità d’informazioni su ciò che dovrebbe essere fatto, poi ci si attende che il giorno seguente le applichino nella loro pratica quotidiana. In questo modo subirebbero un abbassamento di risultati, dovendo appunto attuare deliberatamente nuovi schemi comportamentali non ancora acquisiti. Per questo motivo il training ha la funzione di automatizzare nuovi schemi in un contesto ‘protetto’.
Viceversa, quando si è sul campo, anziché pensare a dettagli specifici e meccanici dell’azione, il professionista dovrebbe concentrarsi su aspetti generici dell’effetto desiderato, quello che gli psicologi chiamano ‘suggerimento olistico’. Per esempio, chi desidera migliorare la propria comunicazione, invece di focalizzarsi sulla posizione delle mani, sul tono della voce, ecc., potrebbe concentrarsi su un aggettivo descrittivo come ‘fluido’, ‘equilibrato’ e su un’immagine evocativa, come un ruscello in un giardino zen.