Il cambiamento all’interno delle organizzazioni e delle persone stesse è spesso più difficile di quanto ci si aspetti. Il mito che basta avere un obiettivo chiaro per ottenere un cambiamento è evidentemente contrario a ciò che possiamo osservare nelle aziende. Eppure non è possibile rintracciare una sola spiegazione per questa difficoltà a cambiare. Negli ultimi 15 anni di ricerca abbiamo messo a punto e perfezionato il Framework LAM costituito da 10 fattori di resistenza (e promozione) del cambiamento. Con essi descriviamo sia le resistenze di tipo sistemico (ad esempio quando una parte dell’organizzazione si oppone al cambiamento di un’altra parte), sia gli aspetti squisitamente individuali. In questo articolo, esploreremo la difficoltà intrinseca dell’individuo di cambiare, focalizzandoci sullo sviluppo di un modello di leadership come esempio concreto.
L’idea che il solo atto di definire un obiettivo sia sufficiente per raggiungerlo è un mito. Il cambiamento richiede un impegno costante e la capacità di adattarsi alle sfide impreviste. Il problema risiede spesso nel passaggio dall’intenzione alla pratica effettiva. In particolare, una volta definita la motivazione a volere un determinato obiettivo, vi sono tre passaggi chiave che tipicamente vengono presi sottogamba e liquidati con un corso di formazione o al più un percorso di coaching.
Il primo passaggio affatto banale è costituito dal sapere. Perché possa essere raggiunto un obiettivo, è necessario possedere una conoscenza specifica. Per potere giocare a tennis, devo sapere come tenere in mano la racchetta, non basta sapere che devo tenere in mano la racchetta ma esattamente come devo afferrarla e come devo maneggiarla. Allo stesso modo per affrontare una negoziazione complessa non basta sapere genericamente che devo avere informazioni sulla controparte, ma quali informazioni e come fare a reperirle. Nella maggior parte dei casi questo livello, acquisibile attraverso formazione formale e informale, non sarà sufficiente.
Per giocare la partita è necessario saper tenere la racchetta nel modo corretto, colpire la pallina nel modo corretto, con il corpo nella posizione corretta ecc. Sappiamo bene, nello sport, che il sapere non è sufficiente ma che serve un allenamento costante e che questo allenamento non coincide con il giocare ma con esperienze pratiche strutturate, corrette, ripetute, riposi e ripetizioni ancora. Nel 2010 abbiamo sviluppato una metodologia – il Laboratorio delle Competenze – strutturata per sopperire a questa mancanza. Questo ha permesso ai nostri programmi di cambiamento di far leva sull’acquisizione reale di competenze: le persone modificavano davvero i loro comportamenti! In questa esperienza diverse volte abbiamo toccato con mano un problema: il terzo tipo di resistenza.
Le persone possono essere motivati ad adottare un modello di riferimento, possedere le conoscenze di dettaglio, essere anche in grado di attuarlo… ma possono ancora fallire nei momenti critici. Erika A. Fox., nel suo lavoro di collaborazione con l’Harvard Negotiation Project, racconta di come Negoziatori di grande esperienza commettevano errori banali che mandavano all’aria trattative importanti, nel momento in cui la situazione di tensione li mandava in cortocircuito.
Negli ultimi decenni abbiamo conosciuto il susseguirsi di tanti modelli di Leadership. Oggi si parla tanto di leadership inclusiva, per cui vorrei prenderla come esempio. Molti di noi riconoscono il valore dell’inclusività ma lo siamo davvero? O meglio: lo siamo fino a che punto? La verità è che tutti noi siamo già inclusivi ma lo siamo fino a un certo punto. Spesso ci fermiamo quando si tratta di individui che non rispettano i nostri valori personali. Essere inclusivi implica l’ascolto attivo, anche quando le opinioni divergono. Tuttavia, il test reale si presenta quando ci troviamo di fronte a idee che consideriamo inaccettabili. In questi momenti critici, la nostra capacità di ascoltare può vacillare, e si manifestano segnali di non inclusività. Un esempio tangibile è emerso durante la pandemia. Chi era fermamente convinto che chi non si vaccinava stesse favorendo il contagio e, di conseguenza, mettesse a repentaglio la vita dei fragili, ha deliberatamente lasciato a casa dal lavoro, escluso dai luoghi pubblici i non vaccinati. Qualsiasi loro argomentazione era già ritenuta insensata a priori, perciò non ascoltata. Anche senza una legge avrebbero fatto la stessa cosa. Molti di loro avrebbe imposto leggi più severe. Ricordiamoci che quelle persone erano con buona probabilità quelle stesse che difendono l’idea di Inclusività. Per capire questo apparente paradosso di solito ci si appella a questioni morali. Ma ciò che spiega quel tipo di reazione è situato invece ad un livello più profondo.
Siamo tutti inclusivi finché una certa situazione non tocca delle corde che fanno scattare i nostri meccanismi di difesa, le nostre rigidità, il sentirci autorizzati a difenderci o contrattaccare. Lo stesso vale per l’essere empatici. Tutti vogliamo essere empatici. Ma quando una persona si comporta in modo da mandare in allarme il nostro personale sistema di sorveglianza, smettiamo di esserlo. Questi esempi sembrano toccare la morale ma in realtà non si tratta di decisioni morali, si tratta di veri e propri stati neurofisiologici: quando siamo in uno stato di allarme, la nostra capacità di accedere alle risorse (accesso alla corteccia cerebrale) viene compromessa per un semplice motivo evolutivo: il nostro sistema nervoso in presenza di un pericolo (reale o presunto) non può disperdere energie per elaborazioni sofisticate; ciò che conta è eliminare il pericolo in un modo o nell’altro.
Questo vale anche per tutte le sofisticate abilità che possono caratterizzare il successo di un leader: abbiamo parlato della capacità di negoziazione ad esempio. Ed è così che un bravissimo negoziatore può trovarsi a commettere errori imperdonabili, può farsi prendere dall’irritazione e perdere di lucidità, nel momento in cui qualche stimolo particolare va a toccare determinati fili scoperti a livello profondo.
Tutti noi abbiamo questi fili scoperti. Abbiamo delle situazioni che, assomigliando a episodi che ci hanno condizionato quando eravamo piccoli, fanno scatenare i meccanismi di difesa atavici del nostro sistema nervoso: il livello di adrenalina nel sangue sale, il battito cardiaco accelera, un maggiore afflusso di sangue raggiunge i muscoli, lo psoas si contrae pronto a scattare, la funizonalità degli organi digestivi viene ridotta, così come viene ridotta la plasticità dei muscoli facciali; l’accesso alle funzioni corticali del cervello è estremamente ridotta e questo spiega come mai perdiamo la capacità di essere efficaci là dove generalmente possediamo competenze.
Il cambiamento è difficile perché va al di là del semplice sapere cosa fare. Riconoscere il gap tra il sapere e il saper fare è solo il primo passo; il passo decisivo consiste nel diventare consapevoli degli stimoli che hanno il potere di mandare in cortocircuito le nostre capacità.
La vera distinzione tra le persone non risiede nel possedere o meno questi fili scoperti, bensì nella loro quantità e qualità. Il percorso di crescita per un leader risiede nella consapevolezza di questi fili e nell’abilità di uscire più rapidamente dagli stati di non risorsa. In questo contesto, consideriamo il gioco interiore come il lavoro essenziale per la formazione di un leader. La consapevolezza di sé diventa la chiave per navigare tra i complessi meccanismi neurofisiologici e per superare le sfide intrinseche al cambiamento e alla leadership autentica.
Il cambiamento richiede un impegno continuo, soprattutto quando si tratta di essere inclusivi in momenti critici. Solo abbracciando questa complessità possiamo sperare di superare le sfide del cambiamento.