Mentre nell’articolo precedente ho affrontato il tema cruciale del ritorno dell’investimento in formazione e di cosa possa favorire il trasferimento degli apprendimenti al contesto di lavoro, superando la soglia limite del 10% individuata da Broad e Newstrom nelle loro ricerche, in questo articolo mi concentrerò sul tema dell’apprendimento competenze complesse.
Come abbiamo già avuto modo di approfondire, vi sono una pluralità di aspetti che influenzano l’apprendimento: da quelli motivazionali dell’individuo che deve apprendere, all’efficacia dei contenuti, ai fattori contestuali che accompagnano il nuovo apprendimento nella sua realizzazione concreta nell’ambiente lavorativo.
In questo articolo, vorrei portare la riflessione sull’apprendimento competenze complesse, e in particolare sul passaggio critico dal sapere al saper fare. Dopo aver analizzato perché le metodologie attualmente in uso non centrano a pieno questo risultato, condividerò una metodologia didattica che abbiamo sviluppato a questo scopo.
Cominciamo col dire che più la competenza da acquisire è complessa e si allontana dalle abitudini consolidate, più il sapere rappresenterà una condizione non sufficiente perché la persona lo metta in atto.
Se parlassimo di un comportamento ‘semplice’ come sorridere al cliente che entra in negozio, il solo ricordarsi di farlo potrebbe essere sufficiente per risolvere il problema. Se l’addetto alle vendite non lo facesse nonostante sia stato informato, dovremmo andare a ricercarne la causa in altri fattori, ad esempio quelli motivazionali, oppure nel rinforzo quotidiano.
Ma quando prendiamo in considerazione obiettivi il cui risultato dipende da una pluralità di comportamenti, la questione si complica.
Come poter diventare più ‘influential’ in una presentazione pubblica?
Come sapere negoziare in modo più efficace in un contesto internazionale?
Come essere un miglior leader? Come promuovere una cultura dell’acocuntability?
Se elencassimo i comportamenti specifici che servono a centrare questi temi, arriveremmo a creare delle lunghe check list.
Supponiamo che a questo punto alla persona sia perfettamente chiaro cosa dovrebbe fare. Ma potremmo aspettarci che sia in grado di farlo?
Nell’ambito delle performance è conosciuto un termine, choking, letteralmente ‘soffocamento’, che si riferisce al fatto che un’attenzione troppo impegnata sul piano cognitivo, tende a soffocare e ad inibire il comportamento spontaneo.
Un po’ l’idea rappresentata dalla celebre metafora del millepiedi il quale, dal momento in cui si concentra sul muovere correttamente il piede, inciampa. La metafora ci dice che l’eccesso di pensiero, naturalmente richiesto da un’attività nuova, tende a farci inciampare.
Qual è la persona che rischierebbe di ‘inciampare’ durante una presentazione al proprio amministratore delegato? O durante una negoziazione di vitale importanza? Nessuno.
E questo è il motivo per cui molto velocemente, i nuovi comportamenti identificati durante un corso di formazione tendono a essere rimpiazzati col repertorio già posseduto dalla persona; questo repertorio è un rifugio sicuro per la persona, la quale quindi può mettere in atto un comportamento non così efficace come quello previsto teoricamente, ma certamente più efficace di un inciampo.
Da questa considerazione capiamo che questi obiettivi comportamentali richiedono un allenamento adeguato.
Una delle modalità più diffuse è quella del Role Playing.
Certamente il role playing consente di sperimentare la nuova competenza in un contesto ‘sicuro’, in cui non può succedere nulla di grave, trattandosi di simulazione.
Tuttavia il Role Playing si sviluppa su due caratteristiche principali che lo rendono non solo inefficace ma addirittura dannoso. La prima è di tipo contestuale: in genere il role playing viene realizzato in un contesto d’aula, in cui, ad esempio, 15 persone si dividono in 5 gruppi da 3 e, quindi, non hanno la possibilità di essere supervisionati dal formatore in modo completo. La seconda è che nelle simulazioni si chiede alle persone di simulare il comportamento nel suo insieme, dall’inizio alla fine. Eventualmente con alcune interruzioni in momenti di particolare crisi.
Se applicassimo questo modello di allenamento in un contesto sportivo, ci renderemmo conto immediatamente della sua pericolosità. Infatti corrisponderebbe al lasciare due giocatori libero di provare in una partita le indicazioni precedentemente date dall’allenatore: la posizione del polso nel tenere la racchetta, la correzione del movimento di rovescio, la posizione dei piedi, la corsa verso il punto di impatto ecc. In campo sportivo questa modalità di (non)allenamento, porta a quello che viene definita la cementificazione dell’errore. Ossia, in partita, le persone tendono a ripetere i propri errori, e dunque a consolidarli. Per creare nuovi pattern comportamentali, è necessario fare qualcosa di diverso (esattamente quello che fa un bravo allenatore di tennis).
Il fatto che in pochi se ne siano accorti nel contesto formativo aziendale è da ascrivere al potere soverchiante della fissità cognitiva nelle pratiche abitudinarie.
Un’altra modalità formativa alla quale si tende a ricorrere è il coaching. C’è una diffusa fiducia nel potere di cambiamento del coaching. Ma in questo si dimentica che il coaching, per sua natura, tende ad agire in modo prevalente a livello cognitivo.
Per riprendere uno degli esempi fatti, un coaching individuale sarebbe funzionale a supportare il negoziatore ad identificare correttamente l’obiettivo della negoziazione, la propria e altrui MAAN e per costruire sul piano cognitivo la strategia negoziale, prevedere le situazioni critiche e identificare cosa rispondere.
Ma essere in grado di farlo nel complesso e in una situazione di crescente tensione emotiva è altra cosa.
Ed è molto importante tenere a mente questa differenza sostanziale.
La metodologia che abbiamo messo a punto lavorando con le aziende clienti, proponendo loro di misurare i risultati e, di conseguenza, avendo come mission il cambiamento comportamentale reale e duraturo, si chiama “laboratorio delle competenze”.
Il laboratorio solitamente segue un’attività formativa in cui impostiamo la procedura comportamentale con un lavoro attivo delle persone coinvolte, in grado di valorizzare il loro prezioso bagaglio di esperienze ed è sostanzialmente un allenamento mirato alle esigenze di ogni partecipante.
Possiamo sintetizzare la formula del laboratorio in queste fasi:
A volte l’accento sarà sull’imparare ad applicare meglio delle competenze già possedute, quindi si tratterà di un lavoro di raffinamento.
Altre volte si dovrà supportare la persona a creare competenze atomiche nuove e nell’apprendimento competenze.
Il laboratorio delle competenze termina quando la persona dimostra di poter utilizzare in modo sufficientemente fluido la nuova competenza. Questo significa che potrà iniziarla ad utilizzare in una partita vera. Certamente sceglierà, all’inizio, delle situaizoni più semplici, ma non avrà bisogno di ricorrere ai vecchi comportamenti.
Come si evince l’allenamento è estremamente personalizzato. Per questo motivo realizziamo laboratori che possono variare in durata e numero di partecipanti, ma che comunque coinvolgono un numero molto limitato di partecipanti per un tempo limitato.
Il formatore agisce nella simulazione per fornire gli stimoli necessari e offrire feed back dettagliati. Segue direttamente ogni persona proprio come se fosse un personal trainer. Gli altri partecipanti presenti nella sessione laboratoriale, a turno, osservano chi lavora attivamente nella simulazione, realizzando un apprendimento vicariante altrettanto proficuo.
Così come in aula, nel coaching o in qualsiasi altra metodologia didattica, anche nel laboratorio il formatore è un facilitatore che si assume la responsabilità di creare le condizioni affinché l’apprendimento possa aver luogo, nel rispetto dei tempi e delle specificità che rendono ogni individuo diverso dall’altro.
In aula si costruisce il sapere, nel laboratorio il saper fare.
Solo la combinazione dei due momenti formativi genera le condizioni per promuovere il cambiamento atteso. Ovviamente ad essi si possono associare altre attività come i coaching, l’affiancamento sul campo, ecc. con la consapevolezza che ogni metodologia risponde ad un determinato obiettivo formativo. E senza dimenticare che la didattica è fondamentale ma da sola non basta. Un progetto formativo, per funzionare come leva di cambiamento, dev’essere collegato agli obiettivi strategici aziendali, ha bisogno di indicatori di effetto, di un sistema sostenibile di misurazioni ex ante, in itinere ed ex post e di azioni sistemiche volte a favorire il trasferimento delle competenze.
Solo in questo modo la formazione può tornare ad essere percepita come un investimento che genera un ritorno.
Dott.ssa Monica Giannoni
Responsabile Didattica LAM Consulting srl SB