Ferdinando è un General Manager estremamente preparato tecnicamente ma anche molto comunicativo ed empatico. Crede nel benessere delle persone al punto da aver attivato un importante percorso sul wellbeing aziendale. Un giorno però, un collaboratore gli nega una disponibilità che lui si aspetta, diventa rosso in viso ed esplode senza controllo con un attacco alla persona.
Monica è il pilastro nel reparto commerciale essendo a capo di aree strategiche quali Medio Oriente, Francia e Russia. Sempre positiva, brillante e collaborativa. Dal momento in cui la struttura aziendale cresce e il titolare si trova nella necessità chiamare un manager esterno nella funzione di Direttore Commerciale Monica smette di essere collaborativa.
Roberto è un professionista con una preparazione riconosciuta da tutti i suoi colleghi. Per questo viene scelto per rappresentare l’azienda di fronte a potenziali investitori. Ma nel momento in cui si trova di fronte alla platea l’ansia lo assale, si blocca e non gli vengono le parole, si agita visibilmente e trasferisce mancanza di preparazione.
Il direttore del reparto corporate di una Banca importante sta mettendo tutto il suo team contro il resto dell’azienda sottolineando quotidianamente con toni pessimistici le inefficienze dei vari altri reparti.
Annarita è il punto di riferimento di tutti in azienda per la sua precisione. Ma il suo perfezionismo la porta, quando teme di aver commesso un errore o quando qualcuno le ha segnalato un’imprecisione, ad avere un attacco di panico. Anche se si tratta di un problema insignificante e facilmente risolvibile.
Mi fermo qui ma penso che tu possa completare con esempi di cui hai esperienza diretta.
Si tratta di situazioni in cui delle reazioni ‘automatiche’ prendono il sopravvento e hanno la meglio su capacità che una persona possiede, sulla capacità di decidere strategie migliori e perfino sui valori più cari.
Tutte le reazioni brevemente descritte nel paragrafo precedente si possono spiegare attraverso la cosiddetta Teoria Polivagale. Porges getta una luce inedita sui nostri comportamenti, anche quelli che possono apparire più irrazionali e perfino dannosi: essi rappresenterebbero in effetti un tentativo del nostro sistema nervoso di difenderci da un pericolo.
In particolare si distinguono tre livelli di reazione difensiva. Il più elevato è quello che attinge alle nostre risorse massime; da un punto di vista neurofisiologico possiamo dire che abbiamo un accesso alla nostra corteccia cerebrale. Da questo stato, abbiamo la possibilità di mobilitare tutte le nostre risorse per risolvere un problema. Tra queste risorse, un particolare ruolo è giocato dalle nostre competenze sociali: sorridiamo, mobilitiamo tutta la muscolatura del viso, anche la voce è dominata in tutta la sua espressività per stabilire connessioni con gli altri ed eventualmente ricercare il loro supporto.
Ma quando la nostra ‘neuro-cezione’ percepisce una minaccia estrema, scattano altri due stati, in progressione: quello di attacco e fuga e quello di ‘spegnimento’. Quando siamo in quegli stati il nostro corpo subisce delle repentine modificazioni che lo preparano a difendersi. In quegli stati però succede qualcosa anche alla nostra capacità cognitiva e a quella relazionale. Siccome per la sopravvivenza queste funzioni non sono così necessarie, anzi sono ritenute un ‘rallentamento’ rispetto ad una reazione immediata (come può essere una veloce fuga), ci ritroviamo nell’impossibilità di cogliere tutte le sfumature della realtà, di ragionarci sopra, e entriamo in una visione a tunnel in cui scartiamo molte informazioni e tutto diventa o bianco o nero. La nostra capacità di prendere decisioni è perciò compromessa. Anche sul piano relazionale accade un enorme impoverimento di risorse: non è certamente strategico in una situazione di sopravvivenza consumare tutte quelle energie per mobilitare la complessa muscolatura che ci rende espressivi; le emozioni di affetto ed empatia sono anch’esse poco rilevanti: dobbiamo combattere o fuggire!
Queste reazioni inconsce del nostro sistema nervoso autonomo ci portano a quei comportamenti che, quando li vediamo negli altri, ci sembrano eccessivi, irrazionali, inspiegabili. Quando li manifestiamo noi, li subiamo, a volte finiamo per giustificarli, ma non ne siamo fieri.
Sia ben chiaro, non stiamo dicendo che le emozioni in generale sono un problema. Stiamo dicendo che quando in una organizzazione le persone rispondono in modo automatico e hanno reazioni di rabbia eccessiva, di gelosia, di paura (di essere esclusi o di non venire riconosciuti ecc.), i loro comportamenti non porteranno del bene. Anche quando posso avere delle buone ragioni, se reagisco con rabbia, probabilmente il mio comportamento non sarà il più efficace. E questo mi tocca riconoscerlo anche se ritengo di aver ragione ad essermi arrabbiato.
Quindi come possiamo mettere assieme questi due elementi? Come possiamo conciliare il fatto che si tratti, da un punto di vista teorico, di adattamenti difensivi a stati di pericolo, e al tempo stesso li viviamo come negativi, disfunzionali? Possiamo riassumere così la risposta: perché la tigre non è nella stanza.
Il nostro sistema mente-corpo in quelle situazioni sta reagendo come se ci fosse una tigre. A quel punto davvero non servirebbe fare alta filosofia, spaccare il capello in quattro, innamorarsi, finire la digestione; ciò che conta in effetti è che i muscoli siano ben irrorati di sangue, che il cuore pompi più forte e che la respirazione consenta una migliore ossigenazione. Per scappare o tentare di difenderci.
Ma in ufficio non dovremo scappare né arrivare alle mani con qualcuno (si presume). E dunque tutto quel potenziale risulta completamente inutile. Non solo: come già sottolineato, perdiamo la capacità di accedere a quelle risorse che invece ci permetterebbero di arrivare ad una soluzione più facilmente.
E’ come se il nostro sistema nervoso reagisse ad una tigre, ma la tigre non c’è. Di conseguenza arriviamo a casa alla sera con tutta quella tensione nel corpo che non siamo stati in grado di scaricare. Oggi si ha evidenza scientifica di quello che il buon senso ci diceva già decenni fa, ossia che tutto quel cortisolo prodotto alla lunga compromette la nostra salute.
Ma perché il nostro sistema nervoso, che nasce come strumento di adattamento, ha una risposta così apparentemente inutile?
Potremmo rispondere a quest’ultima domanda dicendo che, invece, la tigre è nella stanza. Bisogna però saperla vedere. La tigre è costituita dalle nostre esperienze del passato quando eravamo in una fase della nostra vita in cui certi stimoli erano una seria minaccia.
Se il mio sistema va su di giri quando una persona ha un certo sguardo, è perché, ad esempio, nella mia famiglia, quando ero molto piccolo, quello sguardo era usato da mio padre per minacciare mia madre di abbandonare la casa. E quando siamo piccoli, in un’età in cui non siamo autosufficienti, un abbandono è una seria minaccia. Allora il sistema nervoso lo registra come una tigre. Quando si ripresenta un comportamento simile da adulti, è perché il sistema nervoso lo legge allo stesso modo. Non importa se ora siamo adulti e autosufficienti.
Tutto perciò può costituire un innesco: una divisa, una richiesta particolare, un ‘no’, un odore, un momento della giornata quando scende la notte, un rumore, un tono di voce o una melodia. Dipende cosa è arrivato ai tuoi sensi e hai associato a una minaccia. Se avevi due anni, è nell’equilibrio di una creatura di quell’età che va valutato il livello di minaccia.
I nostri percorsi sul Gioco Interiore della Leadership lavorano proprio sull’apprendere come modificare queste reazioni. In questo distinguiamo tre livelli:
Nel momento in cui le reazioni automatiche sono ammorbidite, diventiamo liberi di prendere le nostre esperienze passate e trasformarle in fonti di ispirazione. Impariamo a cavalcare la tigre.
In molti casi questo mondo interiore, fatto di lasciti del passato e da reazioni prevalentemente inconsce, è ancora oggi visto con un certo senso di pudore, come se dovesse rimanere una questione privata, una debolezza di cui forse un po’ vergognarsi. Dietro queste paure credo si nasconda qualcosa di molto ragionevole a cui bisogna dare voce: dove mettiamo il confine di un intervento? Quando siamo in uno spazio aziendale, fino a che punto possiamo portare le persone a condividere esperienze intime? Quando si passa da un intervento aziendale a una psicoterapia?
Sono questioni assolutamente ragionevoli, ma andrebbero affrontate analiticamente e non sfuggite per paura. In realtà il problema dei confini si risolve tranquillamente…. definendoli. Noi li abbiamo definiti e nei nostri percorsi agiamo sulla base di questi presupposti:
La differenza, come sempre, la fa la professionalità con cui si fanno le cose.
Solo negli ultimi decenni la cultura organizzativa si è aperta a questa dimensione. Sempre più Leader si sono resi conto che lavorare su di sé anche mettendo un dito direttamente sulla propria vulnerabilità non è un segnale di debolezza. Al contrario è un grande punto di forza, soprattutto nella misura in cui ci consente di liberarci dei nostri auto sabotaggi e di tutti quei condizionamenti che non ci permettono di essere quello che siamo. Ma c’è di più: è un’attestazione di apertura verso la propria e l’altrui umanità. Quello che vediamo nei follow up dei nostri corsi è che la coesione dei gruppi aumenta quando ci si apre a questa condivisione e il Gioco Interiore diventa un linguaggio comune con cui affrontare le avversità.
Certo, vi sono ancora nicchie timorose che propendono per spostare queste questioni al di fuori dei confini aziendali. Ma credo ci sia un grosso errore alla base. Queste reazioni non spariscono se non ne parliamo. Al contrario, meno ne siamo consapevoli e più le subiamo. Più cerchiamo di spingerle fuori dalla finestra e più, le tigri, rientrano dalla porta.