L’uomo è un essere sociale. Questo concetto implica che l’uomo ha un desiderio naturale di socializzare e di interagire con le altre persone. Secondo la psicologia sociale, una conseguenza di questa interazione tra individui è la tendenza a raggrupparsi in gruppi, che possono essere molto vasti come estremamente esclusivi e limitati a pochi “eletti”. Una volta che siamo parte di un gruppo, tendiamo a fare cose inaspettate come copiare o adottare gli atteggiamenti e le rappresentazioni degli altri membri per riuscire a trovare il nostro posto nella gerarchia sociale ed il nostro ruolo all’interno gruppo.
Nel 1971 il famoso psicologo sociale Henry Tajifel elaborò un esperimento il cui obiettivo era quello di esplorare i processi interni che guidano il giudizio di un individuo, i fattori che permettono alle persone di organizzarsi in gruppo e il grado in cui le persone all’interno di un gruppo tendono a favorire il gruppo stesso (in-group) discriminando il gruppo esterno (out-group).
L’esperimento coinvolse un campione di 48 ragazzi di circa 15 anni, i quali venivano inizialmente divisi in tre gruppi di 16 ragazzi ciascuno. Ad ogni gruppo venivano mostrate 12 diapositive raffiguranti un dipinto diverso. Metà dei quadri erano di Kandinsky e l’altra metà erano di Klee. Tutti i partecipanti erano esposti ai quadri senza però sapere in realtà chi fosse il pittore. Dopo aver visto tutti e dodici i quadri, i ragazzi venivano invitati ad esprimere le loro preferenze su ogni dipinto. Dopo questa fase iniziale dell’esperimento, i ragazzi vennero assegnati a due distinti gruppi. E qui che entra in gioco la “manipolazione” sperimentale. Infatti i ricercatori fecero credere ai ragazzi che i gruppi erano stati selezionati in base alle preferenze: il gruppo chiamato Kandinsky era composto da ragazzi che avevano preferito i sui quadri, mentre il gruppo Klee era composto dai ragazzi che avevano espresso preferenza per i suoi dipinti. In realtà, i membri dei due gruppi sono stati scelti in maniera del tutto casuale. L’idea degli sperimentatori era quella di instillare il concetto di “noi” e “loro” nella mente dei ragazzi, anche se in realtà nessun ragazzo aveva idea di chi fossero i propri compagni di gruppo.
A questo punto dell’esperimento ogni partecipante doveva assegnare “punti premio” ad altri due ragazzi, uno del proprio gruppo e uno dell’altro gruppo. Il sistema di attribuzione era basato su una matrice, che elencava una serie di combinazioni di numeri (12-3, 10-5, 15-25, ecc..), con il primo numero che faceva riferimento ai punti assegnabili al partecipante del proprio gruppo e il secondo al partecipante del’altro gruppo.
Tajlef creò due distinte situazioni: nella prima ogni coppia di numeri forniva un totale di 15 punti, così, per esempio, se al proprio gruppo veniva assegnato 10, al secondo automaticamente veniva assegnato 5. Nella seconda situazione, le coppie di punti erano state create in modo che si potessero formare le seguenti condizioni:
Profitto massimo per entrambi i gruppi: se al partecipante del proprio gruppo veniva assegnato un punteggio più elevato per il membro del proprio gruppo (es. 19) automaticamente il partecipante dell’altro gruppo otteneva un premio più elevato (es. 25).
Massima uguaglianza: se al partecipante del proprio gruppo veniva assegnato un punteggio medio (es. 13) anche all’altro partecipante venivano assegnati gli stessi punti.
Massima differenza di gruppo: se un ragazzo sceglieva il punteggio più basso per il partecipante del proprio gruppo (es. 7) all’altro partecipante veniva assegnato un numero più basso di punti (es. 2).
Nel primo sistema di distribuzione dei punti, i ragazzi tendevano ad assegnare più punti possibili ai membri del proprio gruppo, evidenziando uno spiccato favoritismo di gruppo. Nel secondo sistema di assegnazione dei punti, i ragazzi, invece di puntare a far guadagnare il più possibile il proprio gruppo (con la conseguenza di far guadagnare di più anche l’altro gruppo), tendevano a massimizzare la differenza tra i profitti dei due gruppi (facendo però guadagnare di meno al proprio gruppo). Tradotto in altre parole, i partecipanti preferivano far guadagnare 100 al proprio gruppo e 20 all’altro piuttosto che guadagnare 500 ma sapere che l’altro gruppo avrebbe guadagnato così 700.
Una delle conclusioni più ovvie che possiamo trarre da questo esperimento è che le persone hanno una tendenza naturale a favorire il proprio gruppo di appartenenza. Nonostante i raggruppamenti fossero privi di significato e creati dagli sperimentatori, i partecipanti erano in grado di identificarsi con i loro rispettivi gruppi e creare una positiva identità sociale (evidenziata dalla tendenza a dare più punti al proprio gruppo). Impressionante è i fatto che pur di non far “vincere” (guadagnando di più) l’altro gruppo (i “loro”) e di massimizzare la distanza con loro si preferisce rinunciare a qualcosa (in questo caso diminuendo il proprio guadagno).
Da sottolineare come Taijfel, in uno studio successivo, dimostrò che, anche esplicitando ai partecipanti che i gruppi erano stati creati “a caso” e non in base alle preferenze espresse (o altre qualità personali), i partecipanti continuavano a mostrare favoritismo di gruppo.
Questo per dimostrare come ci basti veramente poco per sentirci parte di un gruppo, e ancora meno per distinguere il “noi” dal “loro”. E questo attiva tutta una serie di processi mentali e comportamenti che non solo tendono a discriminare l’altro, ma possono anche risultare svantaggiosi per noi.