Da Capo o Capa a Manager: il viaggio verso la leadership: conversazione con Giorgio Cavalleri di Chiesi Farmaceutici

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La neuroscienza della felicità: un alleato inaspettato per il cambiamento
25 Marzo 2025

Da Capo o Capa a Manager: il viaggio verso la leadership: conversazione con Giorgio Cavalleri di Chiesi Farmaceutici

Cambiare pelle, crescere, trasformarsi. La carriera di molti professionisti, specialmente in contesti aziendali, attraversa fasi di cambiamento profondo. Una delle transizioni più difficili, eppure più frequenti, è quella che porta un “capo” operativo – esperto, tecnico, competente – a diventare manager, ovvero guida di persone. Un passaggio tutt’altro che banale, che non può essere risolto con due giornate di formazione o con la promozione su carta.

In un episodio ricco di spunti della rubrica “Caffè con la Tigre”, Giorgio Cavalleri, Vice President HR di Chiesi Farmaceutici, ha condiviso con Andrea Sales riflessioni ed esperienze preziose su questo delicato tema. L’intervista è stata una vera lezione sul change management umano, quello più difficile da gestire: quello che tocca i vissuti, le aspettative, gli ego e le fragilità.

Il punto di partenza: una sfida comune a tutte le organizzazioni

Che si tratti di una piccola impresa o di una multinazionale, il tema è lo stesso: molti capi reparto, tecnici senior, amministrativi di lunga data si trovano, a un certo punto, a dover ricoprire un ruolo manageriale. Il motivo è spesso positivo: si tratta di persone competenti, affidabili, storiche, che conoscono l’azienda e i suoi processi. Tuttavia, ciò che serve per essere un buon tecnico non coincide con ciò che serve per essere un buon manager.

Il rischio? Promuovere bravissimi “doer” che faticano a delegare, che si ingolfano di lavoro, che non riescono a guidare, motivare e sviluppare il team. Ne deriva frustrazione per tutti, inefficienza, conflitti e talvolta anche l’allontanamento di risorse valide.

Giorgio Cavalleri descrive questa situazione come “uno dei problemi più trasversali che ho incontrato in tutte le culture, dalle Americhe all’Asia”. Non è una questione di lingua o di mercato: è un nodo identitario e culturale, profondamente umano.

Un caso concreto: la storia di Andrea

Per raccontare questo passaggio, Cavalleri condivide una storia vera, significativa e didattica. La protagonista, chiamata simbolicamente “Andrea”, era una risorsa brillante: creativa, ambiziosa, con energia da vendere, ottime doti relazionali, ma anche molto accentratrice, caotica nella pianificazione, carente nella visione strategica.

Quando le sono state assegnate tre macro-responsabilità, ha iniziato a faticare: progetti in ritardo, slide poco chiare, confusione. Il suo impatto sul team è diventato negativo. Inizialmente si è provato con il classico percorso di coaching e formazione, ma senza risultati evidenti. Perché? Perché mancava un elemento cruciale: la consapevolezza.

Andrea era convinta di “andare benissimo così”. Il feedback, per lei, non era realistico. Anzi, lo rifiutava. Una condizione diffusissima nelle aziende, come sottolinea Sales: “Abbiamo fatto un test su 18 manager, e 10 di loro dichiaravano di non avere bisogno di migliorare in nulla”.

La svolta: restringere il campo e creare un’esperienza oggettiva

La svolta è arrivata con un intervento deciso: Cavalleri ha tolto ad Andrea due delle tre responsabilità, lasciandole solo un’area su cui concentrarsi. Una decisione difficile, che ha generato tensione, rabbia e distacco iniziale. Ma proprio da quella frustrazione è nata una nuova motivazione.

Durante un meeting in cui la presentazione di Andrea era risultata del tutto confusa, il feedback è stato diretto, inconfutabile. Quel momento ha creato un “clic”. Andrea ha capito che c’era un problema reale. Una settimana dopo, si è presentata con una slide chiara, una direzione definita, e ha fatto un lavoro completamente diverso. Il cambiamento era partito.

Fare leva sui punti di forza: il vero catalizzatore del cambiamento

Il passaggio successivo non è stato quello di “correggere i difetti”, ma di valorizzare i punti di forza. Andrea ha fatto leva sulla sua energia, sulla creatività, sulla capacità di relazione. E ha iniziato a sviluppare le competenze mancanti attraverso l’azione, non attraverso la teoria.

Col tempo, ha ricevuto una persona in stage, poi una seconda risorsa, infine una terza. Oggi è una manager che guida cinque persone, con autorevolezza e credibilità.

Questa storia, secondo Cavalleri, racchiude tre lezioni chiave:

  1. La consapevolezza non sempre precede il cambiamento. A volte è l’azione, il feedback diretto e oggettivo a generare consapevolezza.
  2. Il matching tra persona e ruolo è fondamentale. Se una persona non ha certe caratteristiche, non sempre possiamo forzarle.
  3. La motivazione nasce dal sentirsi efficaci. Quando usiamo i nostri “signature strengths”, come direbbe Martin Seligman, fioriamo.

Consapevolezza e bisogno di cambiare: due concetti distinti

Uno dei punti più interessanti dell’intervista è la distinzione tra consapevolezza e volontà di cambiare. Una persona può anche essere consapevole di un limite – ad esempio, “il mio inglese è scarso” – ma non avere alcuna motivazione per migliorarlo. O viceversa, può non vedere il limite, ma sentirsi costretta a cambiare per esigenze esterne.

Cavalleri ammette di aver puntato molto sulla consapevolezza in passato, con scarsi risultati: “È un lavoro che richiede onestà intellettuale, apertura, e non tutti sono disposti a mettersi in discussione.” Molto più efficace, spesso, è far leva sui punti di forza già condivisi, per creare risultati visibili che aprono la porta al cambiamento.

L’importanza della gradualità

Altro elemento cruciale: il cambiamento non avviene tutto in una volta. È un processo graduale. Come nella storia di Andrea, bisogna partire da un ambito ristretto, chiaro, concreto. Solo così la persona può sentirsi in grado di riuscire. E solo da lì si può costruire un percorso sostenibile, in cui ogni micro-successo alimenta il successivo.

Giorgio Nardone la chiama “solcare il mare all’insaputa del cielo”: introdurre piccoli cambiamenti che non spaventano, ma aprono spiragli.

Quando il ruolo è sbagliato: il coraggio di fare marcia indietro

Non tutti i passaggi da professional a manager vanno a buon fine. E non sempre devono andare a buon fine. In un altro esempio, Cavalleri racconta di una persona che da finance era passata al commerciale, poi al ruolo di general manager, fino a un incarico corporate che si è rivelato un disastro. Rimessa in ambito commerciale, ha ricominciato a brillare.

Il punto è: la stessa persona, nella stessa azienda, può avere performance diametralmente opposte in base al contesto. Leggere questa complessità è una responsabilità dell’organizzazione, che deve avere il coraggio di rimettere in discussione alcune scelte.

Oltre l’individuo: il team come unità fondamentale

Nella parte finale dell’incontro, emerge un’altra riflessione potente: forse dovremmo spostare il focus dall’individuo al team. Lavoriamo in team, viviamo in team, eppure gran parte della formazione aziendale è ancora centrata sul singolo.

Cavalleri propone un cambio di paradigma: “Il team è la vera unità elementare delle organizzazioni moderne.” Ed è nei team che possiamo compensare i limiti individuali, valorizzare le differenze, creare contesti dove ognuno può dare il meglio.

Il riferimento all’Apollo Syndrome di Meredith Belbin è emblematico: i team composti da eccellenze individuali spesso funzionano peggio di quelli con profili più ordinari, ma equilibrati tra loro. Perché la collaborazione batte la competizione.

Conclusioni: leadership, umanità e concretezza

Quella offerta da Giorgio Cavalleri non è una teoria, ma un racconto vivo, fatto di persone vere, emozioni, fatiche, successi e scelte difficili. È un invito a uscire dalle soluzioni semplici, dai corsi standardizzati, per entrare nella complessità delle relazioni umane.

Diventare manager non è un passaggio di status. È una trasformazione interiore, che richiede tempo, fiducia e sostegno. Un cammino che può iniziare anche da una slide, da una riunione andata male, da una frustrazione. Ma che può portare molto lontano, se affrontato con cura, rispetto e una buona dose di realismo.

La sfida è capire, come organizzazioni, come HR, come formatori, dove e come possiamo accendere quella scintilla. E costruire attorno a quella scintilla il contesto giusto perché possa diventare un fuoco.