Le professioniste e i professionisti delle risorse umane sanno bene quanto sia strategica la funzione del recruiter e selezionatore HR. Una selezione in tempi contenuti e soprattutto capace di identificare candidate e candidati adatti al ruolo target, vuol dire riduzione di costi da turn-over, pipe-line di successori per i ruoli chiave e di conseguenza la possibilità di far crescere i propri talenti mantenendo presidiate le funzioni più esecutive.
In sintesi recruiting e selezione garantiscono all’azienda il suo asset più importante in termini di leadership ed esecuzione, le persone.
Tuttavia, in molti casi, si tratta di funzioni e compiti sottovalutati dal management e dal business in generale, considerandoli un ruolo da HR junior.
Questo dipende dal pregiudizio rispetto al poco know-how tecnico legato al ruolo e dall’idea che, in fondo, si tratti “solo” di una prima scrematura alla quale segue “la vera selezione” a cura del/la futura/o capa/o ed eventualmente dell’HR Business Partner, tipicamente più senior.
Ma questo non è vero! Quello che forse non sempre è evidente è che la qualità della rosa iniziale di candidati è determinante, perché da una parte restringe la possibilità di scelta a quelle persone e, dall’altra potrebbe escludere a priori la possibilità di incontrare mai i candidati ideali per quel particolare ruolo.
A questo scenario si aggiunge la complessità intrinseca del compito: identificare nel minor tempo e con la massima certezza possibili, muovendosi tra i due estremi della sovrabbondanza di candidature alla scarsità di know-how sul mercato, i candidati giusti per il ruolo target.
Ciliegina sulla torta, quello di recruiter e selezionatore è un ruolo ingrato, nel senso che il beneficio della qualità del suo servizio è poco visibile e percepito.
Se la selezione è ben fatta, viene comunque ratificata dalla linea, che quindi se ne sente autrice, in tutte le altre occasioni è colpa di chi deve individuare la rosa.
Questa premessa è fondamentale per capire quanto i processi e gli strumenti siano importanti per chi svolge questo ruolo. Tra questi, in questo articolo, volgiamo approfondire quello dei test.
Di fronte a una scelta, psicologicamente, possiamo identificare sostanzialmente due possibili strategie per arrivare a una decisione: la scelta per comparazione e la scelta per criteri.
La prima, la scelta per comparazione, prevede che si raccolgano le soluzioni disponibili sul mercato, si affianchino le varie opzioni, si confrontino tra di loro e si scelga la più valida.
La seconda, la scelta per criteri, prevede che si identifichino i criteri che una potenziale soluzione deve rispettare e poi si vada sul mercato selezionando solo quelle opzioni che effettivamente rispondono a quei criteri.
A un primo sguardo potremmo dire la che la prima strategia sia orientata al compito, mentre la seconda sia orientata all’obiettivo. Pensando allo specifico del nostro tema: la prima strategia mi fa scegliere il test migliore, la seconda mi fa trovare uno strumento efficace per scremare i miei candidati.
Un altro modo di guardare a queste due possibili strategie è di ragionare sul know-how in termini di psicologia del lavoro presente in HR.
Se il team che deve identificare il nuovo test ha una forte competenza metodologica potrà andare direttamente sul mercato e utilizzare in modo più efficiente il primo approccio. Questo perché, confrontandosi con i potenziali fornitori, potrà verificare in maniera puntuale la solidità dei costrutti (ipotesi e costruzione dell’impianto) e dei metodi statistici (validazione e significatività statistica degli item e del campione di riferimento) alla base dei vari test.
Se il team sente di non avere al suo interno sufficiente know-how psicometrico, sarà prudente prevedere un passaggio di definizione dei criteri di scelta con il supporto di una consulenza da hoc. Il lavoro preliminare sui criteri sarà l’opportunità di consolidare anche il processo di selezione nel suo insieme. Si tratta di stabilire quali aspetti siano determinanti per stabilire il potenziale fit di un/a candidata/o al ruolo target e di identificare quali passaggi del processo possano rilevare i vari elementi.
Infine, a prescindere dal livello di know-how tecnico presente nel team, un’altra distinzione possibile è quella tra bisogni standard e ad-hoc. Se cercate “il miglior” strumento per lo screening di candidati attraverso test, l’approccio per comparazione appare il più indicato, se invece cercate lo strumento, il test, ideale per voi allora sarà il secondo approccio quello più funzionale.
Per approfondire questo tema ho chiesto un contributo alla collega Caterina De Micheli, PHD presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e docente di psicologia del lavoro e delle organizzazioni e di metodologia della ricerca qualitativa presso la facoltà di psicologia della scuola superiore di scienze dell’educazione San Giovanni Bosco.
Il test è una misurazione obiettiva e standardizzata di una determinata caratteristica psicologica.
I parametri utilizzati per definire in maniera semplice la capacità di uno strumento di misurare coerentemente tale caratteristica sono due: attendibilità e validità.
L’attendibilità rappresenta la “coerenza nella misurazione”. È una caratteristica del test in sé ed è ciò che ci permette di capire se un test è preciso, accurato e stabile nel tempo.
Il principale parametro che consente la valutazione dell’attendibilità è il Coefficiente Alpha di Cronbach: più si avvicina a 1, più il test è accurato.
Negli Stati Uniti questo valore deve essere almeno uguale a 0,70; in Italia invece si tratta di un dato spesso ignorato, non disponibile: per mancanza di analisi o per il mancato riconoscimento della sua importanza nella scelta del test da adottare.
La validità, invece, è la capacità dello strumento di misurare esattamente ciò che si propone di misurare.
Esistono tre tipi di validità: predittiva (correlazione tra il test e il risultato futuro. Questo tipo di validità è utilizzata spesso per la selezione del personale), di contenuto (fa riferimento alla qualità di quali aspetti devono essere indagati) e di costrutto (quanto il test è connesso alla formulazione teorica su cui si basa. Viene misurata osservando le correlazioni con altri test che misurano la medesima variabile).
In sintesi, l’attendibilità riguarda lo strumento, indipendentemente dal suo uso, mentre la validità riguarda l’applicabilità dei risultati di quello strumento.
I test psicometrici non sono facilmente falsificabili ma, per prevenire questo rischio, i test più validi prevedono un indice di distorsione, che garantisce la corretta compilazione, cioè che il dato finale sia coerente con le caratteristiche del candidato.
Quando lavoriamo, la spinta al risultato e all’efficienza ci porta a focalizzarci sul compito piuttosto che sull’obiettivo. È così che la domanda che spesso emerge in sede di consulenza è, se non direttamente rivolta al test, riferita al tipo di candidata e candidato ideali. Ma prima di pensare allo strumento e persino al target che lo strumento dovrà identificare, è fondamentale pensare all’obiettivo finale.
Se in anni passati i ruoli organizzativi erano l’espressione di un’organizzazione e relativa strategia prevalentemente stabili, oggi le cose sono cambiate radicalmente, o meglio, sono in constante evoluzione.
Pensare ai criteri di selezione non può quindi ridursi alla definizione puntuale di una job-description con relative responsabilità e mansioni. Infatti, la maggior parte dei ruoli evolve costantemente in linea con un approccio al business sempre meno statico.
In questo scenario, orientarsi a un determinato profilo di competenze, sia tecniche (hard skills), sia psico-relazionali (soft skills), è rischioso perché quelle stesse competenze potrebbero non essere necessarie o essenziali, e quindi valide, nel giro di pochissimo tempo.
Ecco che i criteri di selezione delle persone, e quindi i criteri per identificare un test che li sappia cogliere, non possono partire da una foto, per esempio dei “best performer”, ma devono attingere a un’analisi longitudinale: quali caratteristiche e competenze hanno le persone che mantengono livelli di efficacia elevati al cambiare di condizioni, strategie e contingenze organizzative e di mercato?
Una volta identificati i fattori di successo longitudinali, posso andare sul mercato e cercare quali test li rilevino. Essendo che la maggior parte degli strumenti psicometrici ha l’obiettivo di fotografare la persona nel suo insieme, secondo diverse prospettive e chiavi di lettura, è probabile che il singolo strumento, pur fornendo molte informazioni, non colga tutti gli aspetti per noi rilevanti. Spesso la soluzione sarà quindi quella di un mix di strumenti standardizzati, integrati possibilmente da strumenti costruiti ad hoc.
Qui non si tratta di identificare il test migliore, ma di disegnare un processo articolato e supportato anche da uno o più test.
Un ultimo ma fondamentale punto di attenzione, per entrambi gli approcci, sono i bias.
Il bias cognitivo in psicologia, indica un giudizio (o un pregiudizio) non necessariamente corrispondente all’evidenza, sviluppato sulla base dell’interpretazione delle informazioni in possesso, anche se non logicamente o semanticamente connesse tra loro, che porta dunque a un errore di valutazione o a mancanza di oggettività di giudizio.
Nel momento in cui noi ci affidiamo a un test standardizzato, potremmo dare per assodato che il nostro processo sia tutelato da questo fenomeno, proprio perché il test da informazioni “oggettive”. Tuttavia, lo strumento rileva quello che noi soggettivamente abbiamo definito essere rilevante. Questo si verifica su due livelli.
Il primo è quello del disegno dello strumento, dove chi stabilisce cosa osservare influenza il risultato. Il secondo è quello che ci riguarda in prima persona nel definire cosa volgiamo osservare e quindi quale strumento scegliamo per farlo.
Per esempio, potremmo stabilire che il profilo della persona cercata sia quello dei nostri best performer. Ora, se questi fossero tutti uomini, è possibile che il nostro profilo di riferimento generi un bias di genere, portandoci a cercare solo persone corrispondenti a quel profilo.
Per questo motivo è fondamentale chiedersi se la costruzione di un profilo di riferimento sia la strategia migliore per garantire pool di candidati eterogenei e quindi diversity.
Benché si tratti di un tema estremamente complesso che richiede sempre una consulenza ad hoc, in linea di principio possiamo dire che è importante identificare dei meta-profili, piuttosto che dei profili di competenze. Ovvero, concentrarsi su cosa la persona debba saper fare, piuttosto che sul come lo debba fare. Una direzione opposta a quella del modello di competenze che approfondiremo in un prossimo post.
Dott. Paolo Lanciani
Senior Consultant
Un ringraziamento speciale a:
Dott.ssa Caterina De Micheli
Senior Consultant