Nel 1974 Timothy Gallwey pubblico il libro “The Inner Game of Tennis” nel quale anticipò i temi fondamentali della futura psicologia dello sport.
L’autore sottolinea il fatto che il gioco del tennis è composto da due parti. Una esteriore che si gioca contro l’avversario, fatta di tecniche e di strategie di gioco. L’altra è quella che si gioca con se stessi. Gli elementi critici di questo ‘gioco interiore’ sono le insicurezze, i dialoghi interiori depotenzianti e le ansietà: quei meccanismi che scattano automaticamente nei momenti critici e che possono inficiare completamente le nostre abilità di gioco. Naturalmente vi è anche un rovescio della medaglia: questo gioco interiore, quando viene padroneggiato, può portare l’atleta a trasformare lo stress della competizione in un amplificatore dei propri punti di forza tecnici.
Lo stesso avviene in azienda.
Chi ricopre una posizione direttiva deve certamente contare sulle proprie abilità: innanzitutto quelle tecniche relative al ruolo; poi quelle cosiddette soft, o manageriali, che hanno a che fare con la capacità di essere persuasivi durante una presentazione, la capacità di auto-motivarsi o di organizzare in modo efficace ed efficiente il proprio tempo; aggiungiamo infine quelle che sono considerate le competenze necessarie per affrontare la complessità: la capacità di leggere il contesto complesso e prendere decisioni in stati di incertezza, la capacità di imparare velocemente e di adattarsi a contesti mutevoli.
Tutte queste competenze possono essere annichilite quando entriamo in uno stato di stress eccessivo. Lo stress può essere sia cronico, quando si protrae per un periodo prolungato, ma possiamo essere vittima anche di reazioni improvvise, quando certe situazioni toccano delle nostre corde sensibili. Quando la tensione che viviamo supera una certa soglia, non siamo più lucidi nel prendere decisioni e anche il presentatore più scafato può trovarsi sul palco in uno stato di confusione mentale.
In azienda vi è, per la verità, anche una dimensione sistemica molto importante, a cominciare dal Leadership Team. Se prendiamo i vari modelli che descrivono come rendere efficace il team direttivo, sappiamo che tutto ruota attorno alla capacità di stabilire relazioni di fiducia e una comunicazione autentica, trasparente, aperta, capace di affrontare in modo diretto eventuali problematiche e di riorientare le azioni verso obiettivi condivisi.
Se però guardiamo quello che avviene in molte aziende, troviamo spesso il fenomeno dei silos: i diversi reparti non comunicano correttamente le informazioni e non collaborano come dovrebbero. In genere questo fenomeno non dipende dal fatto che le persone non sappiano che sia importante far circolare le informazioni: tutti quanti conoscono la teoria. Eppure nel tempo si creano delle barriere comunicative, di sotterranei giochi di potere e la fiducia è compromessa. Queste dinamiche estremamente umane, sono l’esito di quello che chiamiamo il gioco interiore.
Il Gioco interiore può quindi inficiare sia l’efficacia del singolo come l’efficacia del Team.
Possiamo avere una comprensione più immediata se consideriamo il sostrato biologico: il nostro Sistema Nervoso Autonomo rappresenta il nostro apparato di autoregolazione e difesa contro le minacce.
In assenza di minacce siamo rilassati, il nostro sistema parasimpatico ha il controllo del nostro corpo, la digestione funziona bene come tutte le altre funzioni vitali e noi siamo sia in grado di accedere a tutte le nostre conoscenze e competenze, sia di stabilire connessioni positive con gli altri: il nervo vago infatti controlla anche i muscoli dell’espressività facciale con i quali creiamo relazioni empatiche e rassicuranti.
Quando però ci sentiamo minacciati entra in gioco il cosiddetto stato di “attacco e fuga”’ e lì le cose cambiano drasticamente: per la sopravvivenza le nostre funzioni vitali non sono più così fondamentali (che possiamo finire di digerire o avere begli amplessi, poco importa quando una tigre sta per mangiarci); la mente e anche la vista entrano in uno stato di estrema focalizzazione in cui ciò che conta è il pericolo da cui dobbiamo difenderci; una grande quantità di informazioni irrilevanti per la sopravvivenza vengono tagliate fuori; si creano spaccature dicotomiche nella realtà per velocizzare la decisione: bianco o nero, scappo o attacco, giusto o sbagliato; non c’è tempo per valutare sfumature. Figuriamoci se in queste situazioni possiamo perdere energie metaboliche per utilizzare le centinaia di micro espressioni facciali; i muscoli che entrano in gioco sono quelli che ci permettono di mobilitarci velocemente, lo psoas si contrae, il cuore accelera il battito. Insomma in queste condizioni diventa praticamente impossibile gestire bene una negoziazione, affrontare un problema con un collega, un processo di delega, prendere una decisione sana per l’azienda.
Ma dove sta il problema? Il fatto che abbiamo questi meccanismi di difesa è positivo, ci ha aiutato a sopravvivere nel corso di millenni… perché parliamo di Inner Game? Dopotutto stiamo parlando di tigri, di qualcuno che ci può attaccare mentre passeggiamo in una strada buia, no?
E’ questo il punto.
Il nostro sistema nervoso autonomo tende a reagire con questa modalità di attacco e fuga anche a tutta una serie di piccoli stimoli che riceviamo dall’ambiente che ci circonda, in particolare quello lavorativo. Alcune volte si tratta di situazioni davvero stressanti in cui magari non rischiamo la vita ma potremmo rischiare il posto di lavoro. Ma spesso si tratta di stimoli che, filtrati dalla nostra esperienza diventano grandi minacce. Magari non per la nostra mente, ma per il nostro sistema nervoso possono apparire dei veri e propri pericoli. Non vi è nulla di oggettivo: quello che per una persona è irrilevante può generare ansia ad un’altra. Un cagnolino si avvicina scodinzolando ma se hai avuto un trauma da bambino perché sei stato morsicato da un cane, il tuo sistema nervoso scatterà e creerà uno stato di allarme.
E’ la nostra esperienza personale che ha insegnato al nostro sistema nervoso che alcune frasi, alcuni sguardi, alcuni atteggiamenti, alcune situazioni, sono associate al pericolo.
Ho avuto un padre ipercritico che scuoteva la testa ogni volta che proponevo qualcosa; non mi faceva sentire compreso e accettato. Oggi, da adulto, ogni volta che una persona non mi fa finire di parlare e comincia a contestare quello che sto dicendo, il mio sistema nervoso scatta come se si riaprisse quella ferita antica. Il nostro sistema di difesa neurologico, a quell’età, impara presto a riconoscere uno stato di pericolo in quanto siamo creature dipendenti dalle cure dei genitori e non possiamo rischiare di perdere la loro protezione e il loro amore. Per questo sviluppiamo una sensibilità elevata verso tutte quelle situazioni che possono mettere in discussione la nostra sicurezza. E’ come un marchio che viene impresso nel nostro sistema nervoso e per tutta la nostra vita tenderemo ad essere ipervigili verso quegli stessi segnali di pericolo, anche quando, da persone adulte, certamente non rischiamo più alcunché.
L’altro giorno mentre cercavo di spiegare ai miei collaboratori un progetto, uno di loro scuoteva la testa. Ho resistito la prima volta. Mi ha interrotto una seconda e ho cercato di mantenere la calma e di rispiegare un concetto che non aveva capito perché, semplicemente, non mi aveva fatto finire di parlare; alla terza interruzione, cercando comunque di non mostrare il fastidio, ho risposto in uno stato alterato.
IL Gioco Esterno è molto chiaro: il mio collega non ha dimostrato capacità di ascolto, si è posto in modo scorretto nei miei confronti interrompendomi ed esprimendo giudizi senza aver capito cosa volessi dire. Io avevo ragione e lui torto. C’è poco da fare. Nel Gioco Esterno, a quel punto, scattano le capacità comunicative per gestire quella situazione: basterebbe proporre al collaboratore di esprimere e spiegare il suo disappunto fino al punto in cui si rivela l’incomprensione. Sappiamo nella nostra testa che rispondere muro contro muro non porta a risolvere il problema. Sappiamo bene tutto questo. Sappiamo come vincere quello che Gallwey chiama l’outer game.
Il problema è che in quel momento la mia risposta è promossa in modo automatico da uno stato di difesa. Il mio sistema nervoso autonomo ha reagito entrando in quell’antico stato di allarme. Come se il collaboratore fosse quel padre squalificante e io quel bambino. Non mi piace ammetterlo nemmeno a me stesso. Preferisco pensare che l’altra persona sia davvero maleducata o che non sappia ascoltare o che in fondo non valga nemmeno la pena insistere. Questo sposta l’attenzione sull’esterno; giustifica lo stato di nervosismo e magari anche il conflitto che vado a creare. Ma anziché mettermi in vantaggio nella ‘partita’ con l’altro, mi mette in netto svantaggio.
Contrattaccai dicendo provocatoriamente e con voce tesa: “Come fai a dire ‘no’ anche se non sai di cosa sto parlando?”. Avevo ragione nel dire questo. Certamente. E avevo anche il ruolo per zittire la controparte. Ma quello che succede è che questa mia reazione, con buona probabilità, va a toccare l’Inner Game del mio collega, il quale a sua volta si sente interrotto, non si sente rispettato, capito ecc. Ora il suo sistema di difesa primordiale entra in uno stato di difesa. A quel punto incrocia le braccia e si chiude in se stesso con sguardo di disapprovazione. Giocare quella partita non serve a niente se non a portarci in una spirale conflittuale alla fine della quale ognuno se ne andrà via pensando che l’altro non capisce un … nulla.
Alla fine abbiamo cambiato discorso e il progetto è ancora lì che deve essere valutato dal gruppo. Sono tentato di mandarlo avanti lo stesso perché ci credo e non vorrei perdere tempo. Se lo faccio, non avrò la sua collaborazione nelle prossime settimane e nei momenti in cui ci sarà bisogno di lui.
Quante volte succedono cose di questo tipo ogni giorno? Tra l’altro Porges, l’ideatore della teoria polivagale, porta prove consistenti di correlazione elevata tra alterazioni dello stato nervoso e disturbi fisici. Come arriviamo a fine giornata o a fine settimana?
Il punto è che spesso le soluzioni che adottiamo cercano di agire sul piano comportamentale, questa o quella tecnica di comunicazione, di persuasione, di negoziazione… eppure quando si attivano questi meccanismi profondi, la nostra capacità di accedere alle nostre capacità risulta profondamente compromessa. La vera soluzione risiede nel diventare consapevoli dei nostri giochi interiori e nel disconnettere gli eventi esterni dalle reazioni automatiche interiori.
Il mondo descritto dai teorici della Leadership è tutto molto bello. Diamoci feedback e cresciamo insieme. Certo!, finché il ricevere feedback non tocca qualche parte egoica che poi vuole difendersi. Perché il Feedback sia utile bisogna avere uno spazio interiore accogliente.
Sì, bello dare feedback ai miei colleghi… finché non temo che ciò che riceverò in cambio non sarà un ‘grazie’, ma, come quella volta, soltanto l’impressione di aver innervosito il mio interlocutore… che magari è il mio capo.
Bella la gentilezza, l’empatia, l’inclusività nella leadership… finché il collaboratore non ci urta i nervi siamo tutti capaci di farlo.
Lo stesso cane può essere, per qualcuno, una fonte di tenerezza e giocosità e per un’altra persona, una terribile minaccia. Il cane è lo stesso, allegro, scodinzolante. Eppure per la persona che è stata addentata da un cane quando era piccola, potrebbe scattare una reazione fobica. Una soluzione che potrebbe adottare consiste nel chiudere in una gabbia il cane. Un’altra soluzione, invece, consiste nel far sì che il proprio Sistema Nervoso Autonomo non reagisca in quel modo trovandosi di fronte alla visione di un cane. Questa seconda soluzione è quella che aggiunge gradi di libertà e benessere. La prima mantiene il problema.
Insomma questo gioco interiore è quello in cui si gioca la partita vera e non può che rappresentare il terreno di gioco per i Leader che vogliono fare la differenza.
Dell’Inner Game of Leadership si parlerà in questo convegno: Persone e Risultati – Lam Consulting srl SB
Andrea Magnani