In questo articolo parlerò di una recente esperienza che ho supervisionato personalmente e realizzata da Elisabetta, collaboratrice di LAM, per un Istituto di Credito. Rappresenterò in sintesi quello che è avvenuto non tanto per parlare del processo di cambiamento in sé ma di un aspetto di dettaglio: quando le persone coinvolte “resistono” al cambiamento non perché non lo vogliano ma per una questione attitudinale.
Il progetto di change management di cui parleremo nell’articolo è il frutto di un cambiamento fortemente voluto dalla direzione. Il cambiamento riguardava in modo specifico i consulenti “aziende”, ovvero quei consulenti che hanno il compito di gestire la relazione con le aziende del territorio, dalla piccola attività di ristorazione alla grande manifatturiera.
Per capire l’obiettivo di questo progetto bisogna partire dalla comprensione dello stato attuale tipico: la maggior parte dei consulenti bancari che si occupano di impresa, si concentrano soprattutto sulla gestione delle richieste di fido, mutuo e tutte le relative pratiche burocratiche. Mi scuseranno i pochi che si situano lontano da questa ‘media’, ma in genere il loro atteggiamento commerciale è totalmente passivo: ricettivo delle richieste che provengono dai clienti e centrato sulle pratiche necessarie che si ripetono ogni anno. Detto questo si capisce quanto l’obiettivo fosse ambizioso: portare ognuna di queste persone a fissare due appuntamenti a settimana con nuovi potenziali clienti.
Quando abbiamo ricevuto questa richiesta, ci abbiamo riflettuto bene prima di accettarla. Sarebbe molto facile se il nostro orizzonte fosse quello della formazione: un bel corso super strutturato sulle potentissime tecniche di comunicazione, come carpire appuntamenti a freddo al telefono, come sbaragliare la concorrenza nella mente dell’imprenditore e poi magari affiancare delle belle sedute di coaching super fashion. Garantito: sarà un successone! Siamo dei tori della formazione. Il problema è che il nostro orizzonte non è quello; da quando siamo nati come società, e in questo abbiamo trovato il motivo della nostra esistenza, ci occupiamo di portare risultati. Chi desidera conoscere ed approfondire il nostro approccio può consultare la pagina che descrive il Metodo LAM.
Un caso come questo non è per niente semplice da risolvere: abbiamo un obiettivo della direzione (e non delle persone che ricoprono il ruolo di consulenti) che lotta pesantemente contro un comfort quotidiano di fondo: lavoro, anche con grande professionalità, ma aspettando che il lavoro mi caschi addosso. Non c’è nulla di sbagliato in quello che le persone fanno, non sono lavativi, lavorano intensamente e spesso anche oltre orario di lavoro; e lavorano con grande professionalità e senso di responsabilità (la gestione degli affidamenti non è certamente una cosa che si può prendere alla leggera). Il problema è che il loro tempo è completamente impegnato a recepire attività indotte dall’esterno e ora gli stiamo chiedendo di uscire dal loro guscio, telefonare a chi non li cerca, prendere la valigetta e andare a cercare di convincere qualcuno che non li sta cercando, beccarsi una “svalangata” di no nei denti.
Altro che formazione. Abbiamo cominciato a porci delle domande:
“Che motivazione hanno – almeno esplicitamente: ci diranno che lo vogliono fare o anche a livello esplicito rifiuteranno l’obiettivo?”
“Hanno le competenze per gestire un appuntamento che non è più tecnico ma commerciale (non è il cliente a venire da loro per cercare una soluzione, ma devono convincere il cliente che ha bisogno di loro)?”
“Nel caso in cui, per dare spazio a questa nuova attività, rimangono indietro delle pratiche (il tempo è quello! Se era già pieno prima, tutto non ci starà), cosa succederà?
“Esiste la possibilità di rallentare le pratiche, o di spostarle a qualcun altro? Il manager di linea, li supporterà in questo oppure sarà egli stesso preso dalla gestione delle emergenze?”
“E, ancora, come interverrà il loro capo nel caso di inadempienza? Dopo quando interverrà e in che modo? Farà una telefonatina? Cosa succederà, in sostanza, se la persona continua a non fissarsi gli appuntamenti?”
Sono questioni tutt’altro che semplici da risolvere e credo che sia chiaro a tutti che il processo di cambiamento si può incastrare in uno qualsiasi di questi punti.
Perciò abbiamo proposto alla direzione di evitare di cominciare con grandi proclami ma di studiare la situazione nel piccolo di una sola area territoriale in cui erano presenti 7 consulenti. Abbiamo condotto dei colloqui individuali, abbiamo realizzato dei tavoli di lavoro sul tipo di approccio da adottare in cui abbiamo coinvolto il manager, abbiamo seguito le persone individualmente e dopo tre mesi, il progetto pilota ha prodotto questi risultati:
Numero aziende contattate | Numero aziende a cui è stata presentata una proposta | Numero nuovi clienti acquisiti |
152 | 47 | 30 |
Il pilota si è concluso con grande soddisfazione della Direzione che poi ha deciso di replicare l’esperienza nelle altre aree. Ma il risultato non è stato conseguito da tutte e 7 le persone inizialmente individuate e di questo vorrei parlare.
Vogliamo chiamarla attitudine, temperamento, carattere. Lo so, lo so, anziché farmi il pelo e contropelo su queste parole, le sto utilizzando secondo il linguaggio comunque.
Cerchiamo di capirci: una persona può essere più o meno timida o introversa e avere molta difficoltà – anzi, fare proprio una fatica spossante – nell’interazione con gli altri; se ne torna a casa stanca. Non che non gli piaccia, ma preferisce stare con poche persone alla volta, meglio una. Persone conosciute meglio di persone sconosciute. Poi però può anche entrare a contatto con altri, non succede nulla di patologico, ma effettivamente, a fine giornata si sente più spossata e avrebbe bisogno di fare una passeggiata nel bosco da sola. Oppure un’altra persona è molto portata per i numeri e le questioni tecniche, è dotata di una grande capacità d’analisi, ma tende a non guardare le persone negli occhi, a non cogliere le sfumature della voce e, al contrario, interpretare le comunicazioni quasi esclusivamente in base alle parole dette. Infatti tende a non capire quando una persona scherza. Tuttavia è una persona efficacissima nell’analisi e nella precisione di ciò che fa. Spero con questi esempi di avere illustrato cosa intendo parlando dell’importanza di questo fattore umano.
Per i cambiamenti di cui stiamo parlando, è come se queste fossero abilità di fondo. Il piacere di avere interazioni con gli altri e la capacità empatica costituiscono un fondamento essenziale per le abilità che qui cerchiamo di attivare nelle persone. Come possiamo pretendere che una persona diventi efficace nel prendere appuntamenti a freddo e sia efficace a convincere qualcuno che non conosce della bontà dei propri servizi se addirittura quel contatto umano risulta faticoso e se si fatica a guardare l’altro negli occhi?
Quando Elisabetta ha cominciato a lavorare con le persone, queste problematiche sono emerse in modo piuttosto netto. Nessuna delle 7 persone si diceva contraria al cambiamento. Ma per due persone era evidente questo disallineamento tra attitudine e compito. Queste considerazioni ci hanno portato a proporre alla Direzione della banca delle variazioni al progetto iniziale.
Non si possono formare delle abilità di base? Non si può insegnare ad una persona ad alzare lo sguardo mentre parla con qualcuno? Ad allenarsi a percepire gli aspetti prosodici della comunicazione? Non si può portare una persona a ridurre lo stress del contatto con gli altri? Certamente.
Ma qui dovremmo chiederci dove mettere il confine tra formazione aziendale e counseling e dove finisce la responsabilità dell’azienda e dove comincia quella dell’individuo. E dovremmo anche mettere in conto i tempi e i costi di questa trasformazione e capire se il gioco, ammesso che trovi la partecipazione degli individui, valga la candela.
Per questi motivi, e avendo concordato delle tempistiche piuttosto serrate, abbiamo discusso la questione con la Direzione. Avendo ricevuto l’avvallo, abbiamo coinvolto tre delle 7 persone in un colloquio nel quale abbiamo apertamente espresso i nostri dubbi. Le abbiamo rassicurate sul fatto che erano libere davvero di risponderci come sentivano. Due di queste persone si sono mostrate estremamente sollevate e hanno accettato di uscire dal progetto e di tornare al loro ruolo ‘operativo’ essendo anche di supporto per i colleghi che uscivano in appuntamento. Mentre la terza ha dichiarato di essere consapevole delle difficoltà personali ma che proprio per questo motivo vedeva questa sfida come una opportunità per superare i propri limiti.
I risultati sono stati quelli che ho presentato prima. Davvero eccezionali. E le persone che hanno deciso di autoescludersi hanno contribuito a modo loro supportando i colleghi. Il punto fondamentale che desidero sottolineare è questo: spingere le persone contro sé stesse non ripaga mai. Crea uno stress e un possibile burn out a delle persone; e, da un punto di vista dell’organizzazione non porta un grande vantaggio: persone che in un altro ruolo sarebbero di reale supporto all’organizzazione. nel ruolo sbagliato, oltre a stare a casa per malattia, non portano dei risultati.
Lo so, lo so. Queste considerazioni sono banali. Lo sappiamo tutti che le persone devono essere al posto giusto. Sì, ma io non mi occupo delle teorie. Mi occupo di quello che succede veramente nelle organizzazioni, magari per distrazione o perché un obiettivo fa dimenticare le cose ovvie. Quante volte si fa formazione a pioggia? Quante volte si insiste sul fatto che non esiste che qualcuno stia fuori dalla formazione?
Quante volte le persone vengono messe in formazione perché imparino delle competenze quando in realtà il problema è un altro: motivazionale o di attitudine o entrambi. Un modo per non cadere in questi errori è evitare il solutioneering, il correre troppo presto verso le soluzioni. E dedicare qualche energia a capire bene cosa sta impedendo alle persone oggi di fare quel passo.
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Andrea Magnani
CEO & Founder di LAM Consulting srl SB