In questo articolo parlero’ ancora dell’Inner Game. Lo faro’ in una chiave diversa, includendo l’importanza della dimensione interpersonale. Lo faro’ raccontando una frustrazione personale che inizialmente attribuii completamente a fattori esterni. Lo so che quello che scrivo in questo articolo suonerà a qualcuno come troppo personale e non adatto ad un contesto organizzativo in cui tutti sono abituati alla competitività, in cui sembra che il carattere forte sia quello premiato e in cui, spesso, non ci si fida fino in fondo degli altri. Sì, va bene, l’intelligenza emotiva è ormai sdoganata, ma purché rimanga in una sfera americanamente cognitiva e non si entri davvero in profondità nelle emozioni! Eppure sono convinto che questa dimensione di risonanza inter-personale sia proprio ciò che manca e ciò che può far fare la differenza. Ne sono talmente convinto che la sto adottando da anni nella mia azienda.
Qualche anno fa attraversai una crisi professionale intensa. Adoravo quello che facevo, i progetti che realizzavamo erano fonte di soddisfazione per i risultati ottenuti e uno stimolo continuo per la ricerca che ci consentivano di fare. Grazie ad essi avevamo raccolto una serie di esperienze che ci avevano permesso di capire come mai i programmi formativi hanno un bassissimo impatto in termini di cambiamento reale. Abbiamo mappato i fattori individuali e quelli sistemici che stanno alla base della resistenza del cambiamento. E questo ci ha permesso di mettere a punto un framework di intervento che utilizzavamo coi nostri clienti. Posso dire, apparendo poco modesto, che abbiamo sempre anticipato i tempi portando soluzioni organizzative e di training prima degli altri, spesso anticipando pubblicazioni di rilevanza internazionale. Il risultato di tutto questo? Frustrazione. Frustrazione e il pensiero di smettere e fare altro.
Perche’? Beh fondamentalmente, come spesso accade, la frustrazione era figlia delle aspettative. Nutrivo l’aspettativa di essere chiamato a relazionare durante i convegni, di avere visibilità per il lavoro fatto, che nuovi clienti mi cadessero addosso come fiocchi di neve e che mi potessi occupare solo di quello che mi piaceva.
E invece scrivere due o tre articoletti e qualche libricino non era stato sufficiente. Venivo invitato a certi convegni, sì, ma solo se pagavo per avere uno spazio! Mi accorgevo che quando parlavo del modello di People Change Management dopo pochi secondi l’attenzione dell’interlocutore cadeva mentre vedevo che le aziende preferivano comprare la ‘cosa nuova’: non importava che funzionasse o no. “Siamo già stati in barca a vela, abbiamo giocato coi lego, fatto la caccia al tesoro, un’ora e mezza di mindfulness, l’evento motivazionale con l’ex campione sportivo… Che si fa ora?”.
Il lavoro non è mai mancato, semplicemente non decollava come speravo. Quel lavoro arrivava dal passaparola ma non erano tutte rose e fiori. Quanti progetti – messi a punto investendo tempo per capire esattamente la situazione del cliente – poi non venivano acquistati per mille motivi; o c’era quell’altro decisore che non era stato coinvolto e che, quindi, per ripicca si opponeva al progetto; oppure nascevano nuove urgenze; oppure arrivava qualcuno che non aveva capito nulla del progetto e che ci chiedeva di tagliare due giornate lì, stagliuzzare quell’altra cosa la’, condensare il programma di due giorni in un pomeriggio via web conference…
Insomma, non fu un evento singolo ma l’ennesimo evento in fila che mi fece crollare.
Ricordo che ne parlai con la mia collega Monica, accasciato come un cencio sul divano dello studio. Monica è una donna molto sensibile che vive forti emozioni ed è capace di grande empatia. E questo fece: mi ascolto’. Mi fece qualche domanda per capire meglio. Era presente nel non giudizio.
Uno puo’ dire: beh, del resto erano le stesse frustrazioni che viveva lei, facile essere empatici! Ma non è così. Invece avrebbe potuto fare tante altre cose. Ad esempio allarmarsi: il suo lavoro dipendeva in buona parte anche dalla capacità di LAM Consulting di generare opportunità. Cosa sarebbe successo a lei e alla sua economia familiare? Oppure, avrebbe potuto cercare di stemperare la tensione provando a rassicurarmi. Per molte persone semplicemente non è facile stare davanti alle forti emozioni di qualcun altro: scappano, cercano di interromperle, magari cambiando discorso o con una battuta…
Invece ha creato uno spazio di accoglienza che ha contenuto il mio stato. E questo contenimento mi ha permesso di tirare fuori tutta la sofferenza con autenticità senza doverla reprimere, comprimere, nascondere – perché bisogna sempre mostrarsi forti. E questo ha rappresentato un primo passaggio importante nel riconoscimento di cio’ che stava avvenendo dentro di me. Il mio Inner Game. Quali punti delicati erano stati colpiti da quella serie di ‘fallimenti’? Ho potuto vedere con chiarezza che non erano quei rifiuti o quelle difficoltà in sé il problema ma il fatto che toccando delle mie esperienze familiari, avevano portato il mio sistema nervoso autonomo ad una reazione difensiva in cui o tutto o niente. Siccome non ottengo tutto, allora mollo tutto. Da questa consapevolezza, la risalita.
Avrei superato la crisi da solo? Probabilmente si. E’ proprio necessario uno spazio di accoglienza di un’altra persona? No, nei percorsi di Leadership insegniamo lo strumento del ‘diario’: lo scrivere con foglio e penna, il portare fuori da sé attraverso parole scritte permette di vedere la situazione in modo dissociato, come se in un certo senso stesse accadendo ad un altro; e da quel punto può cominciare il percorso che ho già descritto in altri articoli. Certamente questa ‘cura’ può avvenire da soli.
Ma il fatto di poter condividere questo processo con qualcuno aggiunge un valore inestimabile e rende il tutto molto più rapido. Essere visti, ascoltati, capiti da qualcuno infatti tranquillizza immediatamente: riporta il sistema nervoso in uno stato parasimpatico di risorsa. E da lì tutto diventa più facile. Vidi con chiarezza che stavo adottando una posizione di vittima incompresa (che era appunto uno dei programmi inconsci della mia infanzia) e che da quella posizione di sofferenza riuscivo a vedere il mondo solo in bianco e nero. Essere ascoltato e accolto mi aveva già fatto uscire da quella posizione per cui era ancora più semplice fare l’ultimo passo. Recuperare il senso di cosa fosse importante davvero per me, ritrovare il piacere di fare le cose per bene e non per il riconoscimento o denaro in eccesso, compiere altri passi, con pazienza, che servono a diffondere la cultura del cambiamento sostenibile nei contesti organizzativi. Un po’ alla volta, passo dopo passo. Con estremo gusto.
Da soli è possibile fare tanto, ma la dimensione interpersonale può essere di per sé curativa. Questo è il motivo per cui propongo al CEO di lavorare con il proprio Team su queste tematiche.