C’è un test interessante per capire quanto siamo inclusivi.
Dobbiamo chiederci: “Quando mi trovo di fronte a qualcuno che non la pensa come me, o i cui comportamenti non sono conformi a quanto mi aspetto, come mi comporto? Cerco di comprenderlo, cerco di capire sulla base di quali informazioni e convinzioni sta agendo, oppure non ascolto i suoi argomenti o addirittura lo squalifico?”
Evitiamo subito un fraintendimento: ovviamente “inclusività” non significa accettare qualsiasi comportamento. E sì, lo sappiamo bene, le regole vanno rispettate. E sappiamo che se hai una posizione di potere nell’organizzazione, farai il possibile per farle rispettare a tutti i costi. Ma la domanda era un’altra: “sei in ascolto delle differenze oppure no?”
L’inclusività ha più a che fare con l’essere visti, con il vedere riconosciuti i propri bisogni che con il voler fare quello che si vuole.
Nella tua organizzazione le persone vengono davvero ascoltate quando divergono realmente? Si cerca, si fa lo sforzo, di trovare una soluzione vincente per entrambi?
Perché è facile parlare di inclusività quando lo si è verso chi la pensa in modo compatibile al nostro e quando si fa un’opera di rimozione del dissenso. Tra l’altro nelle organizzazioni la rimozione del dissenso è molto facile: raramente le persone, quando sanno a cosa vanno incontro, si esprimono liberamente e completamente.
Devo ammettere che ho ancora grossi limiti nella mia capacità essere inclusivo.
E cercherò di mostrare come la nostra incapacità di essere inclusivi non dipende dal fatto che non crediamo in questo valore, da una mancanza di intelligenza o di empatia in generale, ma piuttosto è legata all’attivazione di meccanismi profondi.
Ricordo ancora quando, circa 25 anni fa, mi trovai al termine di un training a cui avevo partecipato assieme ad un gruppo internazionale. Concludemmo l’esperienza con una cena. Al momento di ordinare un meritato bicchiere di vino, il gruppo di arabi presenti in sala ci chiesero di non farlo. Ovviamente loro erano liberi di non bere vino, ma chiesero a noi di non farlo perche bere vino nella loro stessa stanza era inaccettabile per loro.
Al nostro tavolo rimanemmo esterrefatti per questa assurda richiesta. Pensavamo si trattasse di uno scherzo. Gli animi si animarono. Ma poi i responsabili del Master ci chiesero personalmente di essere “flessibili” e di evitare il vino.
Gli altri ed io accettammo. Ma fu ben chiaro che quello non fosse un atto di inclusività verso gli amici arabi. Come dicevo prima, inclusività non significa necessariamente far fare agli altri ciò che vogliono, magari a discapito nostro.
In quell’occasione non potei non dedicargli i miei peggiori pensieri. Ma riflettendoci a posteriori capii diverse cose interessanti su di me.
Sono tante le volte in cui non mi sento capace di essere inclusivo. C’è poco da fare. Posso attaccarmi a mille giustificazioni e ragionamenti che fanno capire l’assurdità della richiesta degli arabi… Ma la verità è che in quella situazione non ho minimamente tentato di capire la loro posizione: “Per quale motivo ci chiedete questo? Perché non è sufficiente che evitiate voi di bere il vino? Cosa succede o che significato ha per voi il fatto che qualcuno beva il vino nella vostra stanza? E se lo bevessi nella stanza di fianco? Che effetto vi avrebbe fatto sapere che avrei bevuto il vino e che mi sto costringendo a non farlo solo per voi?”
Perché non sono andato pazientemente a cercare di approfondire la questione? Del resto poteva anche essere una occasione curiosa e interessante per capire un aspetto di un’altra cultura. Eventualmente una sfida divertente nel cercare di negoziare con quelle persone per vedere di trovare una soluzione condivisa.
Ma la verità era che ormai ero in uno stato di attacco o fuga e il mio sistema nervoso non supportava alcuna modalità relazionale intelligente. Solo un inutile rimuginare su quanto fossero poco “amichevoli” quegli arabi. Non feci proprio nulla per andare verso a chi aveva una posizione così diversa. Per quale motivo?
Perché quella posizione toccava dei miei fili scoperti. Questa è la verità. Non ho alcuna compulsione a bere vino durante i pasti. Se posso bene, ma se non posso – perché ad esempio mi sono dimenticato di comprarlo – sto bene comunque. Il problema non era il vino, ma il “sentirmi obbligato senza un motivo”. Sentire che qualcuno stava ignorando completamente il mio sentire e imponeva il suo. Queste erano le cose che facevano male; mi tocca ammettere ora – ma certamente non ne ero consapevole allora.
La reazione di fastidio era cosi alta perché l’imposizione, il sentire i propri bisogni ignorati “perché è cosi che bisogna comportarsi”, erano questioni calde nella famiglia in cui sono cresciuto. E ogni volta che si ripresentava uno schema simile, il mio pensiero da adulto veniva by-passato dal sentire del bambino catapultandomi in una modalità di attacco o fuga.
Ecco questo è il punto. L’inclusività delle nostre organizzazioni trova un grosso limite nell’incapacità degli individui di comprendere i propri meccanismi inconsci e di saper superare il proprio stato di attacco e fuga. Non può nascere nessuna inclusività in quello stato.
Avere a che fare con qualcuno che esprime il proprio punto di vista, diverso dal nostro, ci può mettere a contatto con le ferite che stanno dietro ai valori a cui ci aggrappiamo; ci può richiamare il senso di non essere capiti o rispettati dall’altro – anche se sta solo esprimendo un’opinione; ci può toccare un profondo senso di ingiustizia che può derivare dal fatto che la persona di fronte non sembra essere disposta a fare lo stesso nostro sacrificio.
E’ facile che quando ci troviamo di fronte a qualcuno che ha un pensiero divergente dal nostro entriamo in uno stato di attacco e fuga. Non siamo abituati a riconoscerli questi stati: in genere entriamo in una modalità di pensiero difensiva che ci permette di confermare che siamo dalla parte della ragione e che, di fatto, ci tiene lontani dall’avere una relazione umana inclusiva.
Tra l’altro le cose si posso complicare velocemente. Anche il sistema nervoso del nostro interlocutore, sapendo di essere all’interno di un contrasto, è facile che scatti nella modalità attacco-fuga. Magari non riesce a contenere la propria emotività, frustrazione e rabbia. E non per tutti è facile stare di fronte alle emozioni di un altro senza sentirsi sopraffatti. In molti casi è più facile evitare, anziché cercare di essere presenti: ignorando, rimuovendo, facendo una survey, facendo finta che tutto vada bene.