Ultimamente, quando penso allo sviluppo delle persone nelle organizzazioni e ai processi di change management, mi viene in mente la celebre frase attribuita a Michelangelo: “Quando guardo un blocco di marmo, io riesco a scorgervi dentro la scultura. Tutto ciò che mi rimane da fare è togliere il superfluo”.
Da oltre quindici anni studiamo i meccanismi che guidano l’apprendimento organizzativo ed i processi di change management e abbiamo dedicato una buona parte della nostra attenzione all’apprendimento delle competenze. Il nostro modello di riferimento è come si impara a suonare uno strumento musicale (o come si perfeziona la propria tecnica). E’ evidente in fatti che in molti processi di Change Management, il fattore umano sia decisivo nel senso che se le persone non possiedono determinati comportamenti, difficilmente possono sostenere l’azienda nel raggiungimento dei risultati. In questi anni abbiamo affiancato molte figure Direzionali nei loro percorsi di sviluppo professionale e di change management e certamente ognuna di loro aveva necessità di perfezionare alcune competenze: chi vedeva nella capacità di parlare in pubblico efficacemente un tassello importante per aumentare la propria credibilità professionale, chi aveva necessità di perfezionare le proprie doti negoziali. Si tratta appunto di comportamenti diversi da adottare. E tutti sappiamo che non è sufficiente sapere le cose per metterle in pratica. E se non siamo convinti di questo, proviamo a video registrarci.
In diversi progetti abbiamo supportato il personale commerciale a raggiungere maggiori risultati. E anche in quel caso non era sufficiente appellarsi a qualcosa che le persone sapevano già fare: per ottenere più risultati bisognava usare meglio il corpo, la voce, gestire meglio la fase di conoscenza del cliente, la presentazione dei prodotti o dei servizi, ecc. Insomma una complessità di dettagli che fanno la differenza.
E esattamente come avviene nel muovere le dita su un violino per effettuare un assaggio cromatico, o il movimento rapido dell’archetto per toccare in sequenza due corde diverse, o la realizzazione di un tremolo con la chitarra, serve uno specifico allenamento per sviluppare dei pattern motori nuovi. Ci eravamo ben resi conto che le cosiddette didattiche attive, i role playing, il coaching, erano metodologie orientate più a processi cognitivi e non erano adeguate a fare questo; perciò abbiamo sviluppato un approccio chiamato: laboratorio delle competenze. Abbiamo continuamente testato l’efficacia raggiunta grazie a questo approccio e continueremo ad utilizzarlo.
Con il passare del tempo sta nascendo una nuova consapevolezza, che non contraddice la prima ma la arricchisce. Certamente ci sono dei contesti organizzativi nei quali la differenza è fatta attraverso l’acquisizione di un perfezionamento delle proprie competenze. Vi sono poi ambiti in cui invece è di vitale importanza agire per sottrazione.
Prendiamo come esempio l’ambito dello sviluppo dell’Intelligenza Emotiva e dell’Intelligenza Relazionale. Da sempre esistono dei corsi che insegnano quanto sia importante l’empatia, come si fa ad ascoltare ecc.
Ma il punto è che ognuno di noi, nasce già con un repertorio di competenze naturali che rappresentano intimamente la natura umana. Siamo esseri umani in quanto sappiamo porci di fronte ad un nostro simile e sappiamo avvertire come si sente; provare empatia, amore, compassione, sono dotazioni di base del nostro essere. Semmai queste abilità di base possono venire ferite nel corso della nostra vita e, in seguito a queste ferite, possiamo costruire inconsciamente corazze per difenderci. Una persona particolarmente fredda nelle relazioni, o che lancia frecciatine pungenti ai colleghi, probabilmente lo fa perché il suo bisogno di affetto e riconoscimento è stato ferito e, nella sua vita adulta, si protegge, si tiene sufficientemente lontana da un certo livello di intimità nel quale potrebbe tornare a soffrire. Una persona che appare orientata a trattare gli altri come oggetti, come numeri, forse tratta anche se stessa come un oggetto, una macchina: mangia un panino davanti al computer per non perdere ‘efficienza’ e giusto per ‘alimentare la macchina corporea’; poi magari va in palestra e fa quelle ripetizioni esatte senza neanche ‘sentire’ il proprio corpo.
E’ chiaro che quando si relaziona con gli altri, tenderà a muoverli come pedine, spostarli come oggetti, essere infastidita se esprimono bisogni diversi da quelli programmati. Questa persona, in fondo non così rara nelle nostre organizzazioni, forse non si riconoscerà da questa descrizione; ma gli altri intorno a lei sì, la riconosceranno. Probabilmente non sarà così amata, ma è importante capire che queste manifestazioni non riguardano il suo cuore (quello che Winnicot chiamava il Vero Sé); queste corazze, il trattare sé e gli altri come oggetti, è un modo per creare una distanza sufficiente dalle proprie sensazioni, per tagliare fuori il proprio vissuto emozionale, per soffrire di meno. Non sono meccanismi che uno sceglie. E siamo così tanto immersi in questi meccanismi che finiamo per non riconoscerli e per credere di essere proprio fatti così. Queste sono le basi per valutare il tema del “change management processo”.
Ora, che senso ha in una situazione come questa, a insegnare alla persona a ‘comunicare meglio con gli altri?’ Attenzione, si potrebbe anche pensare: “Beh, male non può fargli!”. E se invece non fosse così? Insegnare ad una persona che presenta questa corazza (continuiamo con questo esempio ma ne potremmo fare altri mille) come si comunica meglio, significa concretamente dargli altre chiavi e cacciaviti per operare sull’oggetto; è un modo per costruire ulteriori strati sullo strato della corazza. Un ulteriore modo per stabilire distanza manipolatoria con gli altri.
Ciò di cui avrebbe invece bisogno è cominciare a prendere coscienza di questi meccanismi di difesa, recuperare le proprie sensazioni, ritrovarsi nella sua dimensione autentica e fragile e costruire, a partire da questa fragilità, una nuova forza. A partire da questa dimensione interiore, la comunicazione cambia da sola, scaturisce come forza naturale. A partire da questa sorgente interiore, le tecniche comunicative possono diventare dei canali per potenziare e rendere più fruibile questa umanità; a partire dalla corazza rischiano di irrigidire invece ulteriormente i rapporti.
Abbiamo fatto l’esempio di una corazza estremamente spigolosa e scomoda; sia per chi sta attorno sia per chi la indossa. Ma ci sono corazze estremamente morbide e duttili, come quella di chi non riesce a dire di no, nemmeno se quella cosa gli porta del male fisico, estremo affaticamento, gli compromette la salute. Ma non dice di no lo stesso, finché non esplode o finché l’altra persona non gli fa un torto grave. Anche in questo caso non sarà sufficiente apprendere come mettere dei confini, a meno di partire da un percorso a ritroso. E’ naturale avere dei confini a meno che una persona non abbia evitato di manifestarli, si parla sempre di decisioni a livello inconscio, per non perdere l’amore di una persona significativa. A volte è un’aria che si respira incerte famiglie: che se non fai così non sei abbastanza buono/a. Se dall’esterno può assomigliare all’altruismo, di fatto questo approccio – che J.L.Rosenberg ha chiamato Agency – si distingue dall’amore perché non è disinteressato: l’interesse, mai manifestato e inconscio, è quello di essere apprezzati, di non essere lasciati. Ma cosa c’entra tutto questo con il contesto lavorativo? E’ possibile che uno non voglia farsi abbandonare dal… collega? …. o dal capo? Ripetiamo: si tratta di meccanismi di difesa inconsci che una volta adottati diventano automatici e tendono a diventare il nostro modo di rapportarci agli altri. Proprio per questo sono da considerare quando ci approcciamo ad un “change management processo”.
Una persona che ha questo schema può anche aver capito intellettualmente che deve dire di no ma farà una fatica viscerale a farlo. E’ difficile aggiungere qualcosa sopra questo strato. Diventerebbe un ‘no’ meccanico che in genere porta con sé senso di colpa. Ciò che funziona, anche in questo caso, è togliere, andare a scrutare sotto lo strato della difesa e recuperare la parte di sé ferita che fa da fondamenta a tutto quel meccanismo.
In sintesi, per guidare un processo di change management efficace vi sono risultati che richiedono l’attivazione di nuovi schemi comportamentali, come accadrebbe quando decidiamo di imparare un colpo di rovescio più efficace nel tennis. Ci sono altri risultati che richiedono la liberazione di un potenziale già insito in noi. Qualcosa che c’è già e che è rimasto intrappolato. Se ci pensiamo bene si tratta di una bella differenza.
Non sarebbe corretto dire che ognuno di noi ha insito una volée perfetta; infatti il nostro corpo non si è evoluto in decine di migliaia di anni per giocare a tennis. Per quella, è necessario costruire una competenza. Mentre risulterebbe bizzarro pensare di insegnare a qualcuno ad amare. Mentre nel primo caso la competenza si può imitare, allenare, costruire, nel secondo caso può essere eventualmente stimolata, riportata alla luce, potenziata attraverso esempi positivi e correttivi.
Quando il coaching viene utilizzato, come si dice, per far emergere le risorse e si costruiscono processi di change management per guidare le risorse nel cambiamento, bisogna capire se per ottenere il risultato desiderato, la persona le ha già davvero dentro di sé quelle risorse o se invece vanno costruite. Insomma, alcune cose si raggiungono per addizione, altre per sottrazione. Ed è importante non invertire i fattori.