Parafrasando Josh Bersin, il performance management non è altro che un insieme di attività che rientra nelle responsabilità di ogni figura manageriale: il management, infatti, ha il compito di gestire persone, processi, aspetti organizzativi e strategici finalizzati ad ottenere una determinata performance. Se con il termine ‘performance’ intendiamo, oltre ai risultati del business, anche i ‘propositi evolutivi’ che contemplano l’impatto dell’impresa sull’ambiente, la cultura e gli individui, questa definizione può ben adattarsi a quelle realtà organizzative che hanno preso le distanze dal paradigma novecentesco, imperniato sul controllo gerarchico e l’accentramento decisionale.
In questo articolo, dopo aver riassunto brevemente il significato e l’importanza del Continuous Performance Management, ne descriviamo i tre pilastri fondamentali con le soluzioni formative che abbiamo identificato.
Vogliamo subito offrire una sintesi di quello che consideriamo un completamento necessario del modello di Performance Management. Ogni sistema di gestione della performance parte naturalmente dalla definizione degli obiettivi e delle metriche che dovrebbero esprimere il risultato desiderato. Vedremo qui di seguito quali caratteristiche permettono a questi obiettivi di funzionare al meglio e, in particolare, l’importanza della ‘continuità‘.
A quel punto però dovremmo chiederci: a) le persone hanno le competenze necessarie per raggiungere quelle performance e b) sono nelle condizioni di poter esprimere quelle competenze al meglio delle proprie possibilità?
Possono sembrare questioni ovvie ma cercheremo in questo articolo di mostrare come i tradizionali sistemi di Learning & Development – l’annual review, l’indagine dei bisogni formativi, i piani di sviluppo individuali ecc. – falliscano nel supportare realmente questo processo di management.
Quando si mette l’accento sul ‘continuous’, si cerca di sottolineare quanto sia fondamentale, in un contesto sempre più complesso e dinamico, verificare, rivedere e riprogettare le proprie azioni in corso d’opera, anziché prevedere un unico momento di confronto annuale sul raggiungimento degli obiettivi, come indicato nel modello MBO. Il monitoraggio e confronto in itinere non solo rappresentano meglio l’essenza agile di un processo di ricerca – azione; ma diventano una chiave essenziale per poter mantenere il giusto focus su ciò che è prioritario e che, altrimenti, viene scalzato dalle numerose emergenze che caratterizzano il lavoro nelle organizzazioni. Per questi motivi ci sentiamo di considerare l’aspetto di continuità il pilastro zero, quello intrinseco, su cui si regge la performance. Procediamo con gli altri tre.
La prima via percorribile per ottenere una determinata performance è, come sappiamo, quella che definisce correttamente gli obiettivi. Vi sono diversi modelli a disposizione, ma se ne volessimo prendere uno come esempio, potremmo considerare l’OKR (Objectives and Key Results). Questo modello ha delle caratteristiche che lo rendono molto interessante, a partire dalla sua semplicità: la definizione degli obiettivi richiede che siano sfidanti, motivanti e ben rappresentati da precise metriche. Un ulteriore elemento fondante è dato dalla loro trasparenza e visibilità all’interno dell’organizzazione e il fatto, poi, che non siano utilizzati per valutazioni e sistemi incentivanti, consente alle persone di disporsi mentalmente all’esplorazione, accettando anche il rischio di fallire. Infine, la revisione è periodica, tendenzialmente trimestrale, con verifiche dello stato di avanzamento ogni due settimane.
Tuttavia, la bontà del modello non è sufficiente. A fare la differenza è il ‘come’ viene gestito il processo.
Le domande chiave che possiamo porci riguardano il modo con cui la persona viene guidata a definire gli obiettivi e le relative metriche, in modo tale che non sia un’imposizione dall’alto, ma possa nascere dall’autodeterminazione del soggetto; come viene verificato che l’obiettivo sia congruente con il proposito dell’azienda o del team; come si strutturano i momenti periodici di verifica, orientando la valutazione non al passato ma al potenziale non ancora espresso.
L’abilità manageriale che permette di promuovere il modello OKR nelle organizzazioni è fondamentalmente un’abilità di ‘coaching’, attraverso la quale guidare i collaboratori ad assumere un ruolo attivo e centrale nella costruzione dei propri processi evolutivi, in vista dei risultati attesi.
Quanti manager possiedono questa competenza e quanti, invece, cercheranno di esprimerla al meglio delle loro possibilità, attingendo purtroppo ad un sapere implicito fatto di reminescenze scolastiche che hanno ben poco a che vedere con la promozione dell’altrui potenziale? Molte aziende, non a caso, investono in programmi formativi per fornire alla struttura manageriale delle competenze essenziali di coaching.
Questa prima via è una condizione necessaria ma non sufficiente a garantire la performance.
Avere un obiettivo e occasioni per fermarsi e valutare la strada compiuta, così come quella che rimane, è già un grande valore. Tuttavia, perché sia sufficiente, abbiamo bisogno che la persona impegnata nel raggiungimento dei propri obiettivi abbia le competenze necessarie. In caso contrario, si apre il capitolo dell’apprendimento organizzativo. Chiunque abbia studiato questo argomento in profondità, sa bene che non può essere risolto con dei programmi formativi e sa, anche, che a fronte di un impressionante proliferare di metodi innovativi e mode didattiche, i risultati dei processi di apprendimento sono in genere deludenti. E quando ci riferiamo ai risultati, non intendiamo il gradimento della formazione o la soddisfazione di chi ha progettato, ma al trasferimento nel contesto lavorativo dei nuovi repertori comportamentali. Il problema è così dolente che storicamente si è creata quella che Josh Aredt chiama la ‘bolla del training’: una separazione netta tra il linguaggio HR e quello del business, come se il Learning & Development fosse qualcosa di staccato dal resto dell’organizzazione.
Può sembrare scontato affermare che per ottenere la performance attesa, a volte, sia necessario sviluppare determinate competenze, ma ancora una volta alcune domande possono aiutarci a comprendere se stiamo affrontando il problema correttamente: lo sviluppo personale è integrato nel processo degli obiettivi? Ogni obiettivo formativo è legato a precisi kpi o key results? (Su 73 casi analizzati in questi anni in nessuno di essi vi era questa connessione!). Le persone hanno preso coscienza dei propri meccanismi di apprendimento e di quali siano i fattori che facilitano l’apprendimento nelle organizzazioni?
Se i punti presentati non sono affrontati adeguatamente, si ricade nei classici bias dell’analisi dei bisogni formativi, responsabili di una parte significativa dell’inefficacia dei percorsi formativi.
Queste considerazioni ci hanno portato in questi anni a sviluppare interventi specifici che permettono di creare un linguaggio comune e rafforzare il legame con il dipartimento L&D. Si tratta di percorsi incentrati sulla meta competenza di ‘imparare ad apprendere’, dedicati all’intera popolazione aziendale, e dell’ ‘Impact experience’, rivolto alle figure manageriali, in cui si lavora sul guidare i propri collaboratori in un processo di apprendimento.
Se gli obiettivi sono stati definiti, è stato attivato un processo agile per poterli raggiungere e la persona possiede le competenze necessarie per perseguirli, rimane il tema dell’efficacia personale. Quante volte avremmo la capacità di fare qualcosa ma capita di non essere nelle condizioni di realizzarla con efficacia? Abbiamo una presentazione ad un cliente importante, ci siamo preparati correttamente ma un incidente di percorso, una delusione arrivata via email, un sonno disturbato o una lite con un collega ci ha messo in uno stato di stress, di nervosismo, di delusione; in due parole, di bassa efficacia. E se un evento singolo può diminuire la nostra efficacia in un certo momento, vi sono condizioni di stress continuativo nel tempo che possono comprometterla in maniera più seria. Al di là di ciò che è successo durante i recenti lockdown, diversi report puntano il riflettore sul fatto che la maggior parte dei lavoratori, negli ultimi anni, si sente sopraffatta e soffocata da continui stimoli provenienti da ogni direzione: call su call, email, interruzioni continue, emergenze dell’ultimo secondo.
Vi possono essere diversi motivi per cui la dimensione di efficacia personale non è esplicitata nei modelli di performance management. Uno di questi potrebbe essere che si parla di qualcosa che tocca la sfera personale ed è caratterizzato da sensazioni più identificabili internamente, che oggettivabili tramite sguardo esterno. Un altro è che si tende a riportare questa dimensione di lavoro all’interno del processo di coaching. Il coaching riguarda principalmente il piano cognitivo, tende a lavorare sulla consapevolezza, ma come afferma Andrew Huberman, docente di neuroscienze a Stanford, “è difficile cambiare la mente attraverso la mente”. Cambiare il proprio stato interiore per entrare in una dimensione di flusso ed efficacia, richiede una conoscenza di se stessi e una pratica che implicano una consapevolezza del rapporto tra mente e corpo che in genere è esclusa dagli strumenti classici del coaching.
Questo è il motivo per cui mettiamo a disposizione di ogni persona, impegnata verso obiettivi sfidanti, un programma specifico di pratiche per riportarsi ‘in bolla’ nei momenti di difficoltà. Dal nostro punto di vista, queste conoscenze dovrebbero far parte del repertorio di ogni individuo in azienda, a partire da chi ricopre il ruolo di Executive.
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