In questo articolo vorrei riprendere uno dei temi cardine trattati nel Workshop “Persone e risultati”, condotto da Andrea Magnani, sulla ricaduta della formazione.
La letteratura di riferimento e, in particolare, le ricerche di Broad e Newstrom hanno evidenziato che non più del 10% degli investimenti, destinati alla formazione, si traduce in un trasferimento di competenze nel contesto di lavoro.
Perché la formazione ha una ricaduta così limitata, tanto da spingere, legittimamente ritengo, molte organizzazioni a tagliarne i budget o a realizzarla solo se finanziata?
Uno dei problemi principali che ne limita fortemente la ricaduta risiede nel fatto che molti corsi di formazione violano i principi dell’apprendimento degli adulti e le scelte metodologiche risentono delle mode del momento, più che di una valutazione ponderata in funzione degli obiettivi che s’intende raggiungere.
Procediamo per gradi.
Nel 1980 l’americano Malcom Knowles pubblica il manuale The Modern practice of adult education: From pedagogy to andragogy, con cui fonda la moderna Andragogia, ossia quel filone di studi che ha per oggetto l’apprendimento degli adulti.
La sua teoria individua 6 principi chiave (core principles):
Se riflettiamo sui principi che favoriscono l’apprendimento degli adulti, potremo facilmente riconoscere quanto essi non siano rispettati dalla maggior parte degli interventi formativi.
Spesso i corsi di formazione non sono collegati a obiettivi strategici e a indicatori di effetto definiti in modo dettagliato, quindi i partecipanti non ne comprendono il senso all’interno del contesto di lavoro in cui sono quotidianamente impegnati. Di solito la partecipazione non è frutto di una scelta volontaria e in questo caso si viola il bisogno di autodeterminazione.
Molti percorsi si limitano a qualche giornata d’aula (due o tre nella maggior parte dei casi), in cui i modelli e le teorie presentate non valorizzano il bagaglio di conoscenze, competenze ed esperienze che ogni adulto ha costruito nel tempo, ma presentano un carattere generale, sganciato dal contesto reale di lavoro e da quella concretezza che favorisce l’attivazione al trasferimento sul campo, e in questo modo ci siamo giocati il terzo, quarto e quinto principio.
Un esempio su tutti è costituito dai corsi sulle tecniche di vendita, in cui s’insiste sull’importanza di fare domande e si propone una classificazione che le distingue in aperte e chiuse. Il 90% dei consulenti e gestori, con cui ho avuto occasione di lavorare in questi anni e che in precedenza aveva partecipato a corsi sulla vendita, è convinto che sia opportuno fare solo domande aperte, ma non è in grado di definire con precisione quali siano, né tanto meno è abituato a farle al cliente. Questo dato emerge chiaramente dall’attività in aula e dai molteplici mistery client che abbiamo condotto nel tempo, con ripercussioni negative sull’efficacia finale.
Le cose non migliorano se al posto dell’aula o per integrarla, l’intervento prevede anche un coaching individuale o di gruppo, oggi talmente diffuso che sembra non se ne possa fare a meno.
Il coaching è utile quando si desidera lavorare su obiettivi di miglioramento e sulle strategie cognitive per raggiungerli, mentre è assolutamente inefficace per lo sviluppo delle competenze. Da qui l’importanza di definire con precisione la funzione di ogni metodologia didattica, che approfondirò in un articolo successivo.
Infine, l’impianto complessivo descritto mina la motivazione intrinseca che, per potersi attivare, richiede che tutti gli altri elementi trovino espressione, dalla risposta al bisogno di senso, fino alla concretezza di ciò che è oggetto di apprendimento.
A questo aggiungerei il problema della dimensione sistemica, per cui il contesto raramente è preparato e predisposto ad accogliere i nuovi repertori comportamentali, con il rischio di spegnere anche l’entusiasmo dei pochi che, tornati sul campo, sarebbero disponibili ad applicare ciò che hanno appreso in aula. Sapendo bene che solo l’applicazione continuativa permette di consolidare e perfezionare le nuove competenze, dando a ciascuno la possibilità di trovare quell’adattamento a sé che si trasforma in autenticità e, di conseguenza, in aumento dell’efficacia.
Per identificare i fattori strategici in grado di trasformare un progetto formativo da costo a investimento, rendendolo una leva reale del cambiamento, rimando al documento “PERSONE E RISULTATI: Guida per HR Training Professional“
Nell’ultima parte dell’articolo, vorrei soffermarmi sugli aspetti didattici che consentono di apprendere competenze complesse.
Gli studi più recenti nell’ambito delle neuroscienze, superando la classica e obsoleta divisione tra le facoltà dell’emisfero destro e sinistro, hanno evidenziato due modalità principali di funzionamento del cervello: da un lato abbiamo una modalità consapevole, presidiata dalla coscienza che entra in gioco attraverso l’esercizio del dubbio, della ricerca di alternative al pensiero consueto e dell’analisi; dall’altro, una modalità inconsapevole e automatica che tende alla conservazione delle abitudini consolidate, nutrendosi di certezze e continuità. La prima ha sede nelle aree della corteccia prefrontale, mentre la seconda risiede nelle aree subcorticali che hanno una maggiore estensione. Ogni qualvolta un individuo si trovi di fronte ad un apprendimento, si scatena una sorta di dialettica interna tra queste due funzioni della mente, una, dinamica e aperta al cambiamento, e l’altra pigra che resiste.
Perciò, per portare una persona ad apprendere nuovi repertori comportamentali complessi (come ad esempio competenze di vendita, negoziazione, gestione dei gruppi, ecc.) c’è bisogno dell’intervento della mente consapevole con la sua capacità analitica, di autocontrollo e di concentrazione. E tempo per lasciare che la mente automatica si abitui pian piano alle novità e le accolga sulla base della loro compatibilità con i modi di agire che ha già fatto propri, in modo tale che si integrino nei quotidiani processi lavorativi.
Per questa ragione non ci possiamo aspettare un cambiamento comportamentale dopo qualche giornata di formazione in aula o un certo numero di sessioni di coaching. Con queste tipologie di azioni formative, si può lavorare sulla comprensione dei modelli teorici e comportamentali o sulla ricerca di strategie cognitive in funzione di determinati obiettivi, mentre l’acquisizione delle competenze (saper fare) necessita di un allenamento specifico e continuativo, in cui spezzettare il nuovo comportamento nelle singole unità che lo compongono, assimilandole in maniera graduale, per poi ricomporle superando le resistenze del cervello inconsapevole.
Le due parole chiave sono ripetizione e persistenza per produrre quelle modifiche nelle abitudini comportamentali, radicate nelle strutture neurali del cervello spontaneo, che ci attendiamo.
Nel prossimo articolo approfondirò la metodologia che abbiamo messo a punto e perfezionato negli anni per favorire il passaggio dal sapere al saper fare, creando le condizioni di trasferibilità delle nuove competenze complesse al contesto lavorativo.
Dott.ssa Monica Giannoni
Responsabile Didattica LAM Consulting srl SB